Wagner Opera scenes di Jessye Norman
Aggiunto il 03 Ottobre, 2015
Disco di scarso interesse nel proporre una cantante carismatica nei ruoli che avrebbe dovuto fare, o affrontare più frequentemente nell’ambito di una carriera che, vista col senno di poi, non sembra aver avuto un filo conduttore.
Nata nel 1945 in Georgia, all’epoca di questo disco ha 42 anni ed è nel pieno delle sue possibilità vocali; peccato che abbia già perduto lo smalto che aveva esibito in un disco di 12 anni prima, con Colin Davis, in cui aveva affrontato la morte di Isolda con un piglio che aveva fatto gridare al miracolo. Il debutto a soli 24 anni a Berlino era avvenuto proprio nel segno di Wagner, con Elisabeth, ruolo ritornato altre volte nella sua carriera assieme a Kundry, Sieglinde, Terza Norna, e almeno una volta Isolde, in concerto. C’è anche Elsa, solo come performance discografica con Solti, molto bella peraltro.
Come cantante wagneriana è molto atipica e non ha fatto scuola, se così si può dire. Prendiamo la sua Kundry: interessante? Certo. Ma basta una frase di Waltraud Meier per ribaltarla, a dimostrazione che puoi cantare bene finché vuoi, ma non ti inventi uno stile, specie se non hai una frequentazione teatrale di lungo corso.
Il Liebestod l’ha proposto altre volte nel corso di concerti, per esempio con Karajan nel 1988 (disco DGG); aveva però già perso l’afflato quasi mistico che caratterizzava il suo approccio a questo repertorio.
In questo disco, la Norman è diretta da Klaus Tennstedt, un gran bravo Artista specie allorquando dirige il repertorio sinfonico (si pensi alla sua integrale di Mahler, di una bellezza struggente), ma che con l’opera in genere – e Wagner in particolare – sembra non avere un gran feeling. Il preludio del Tristan è ben compitato, ma senza niente che lo caratterizzi in modo rilevante; l’accompagnamento al canto è corretto e nulla più, e forse in un recital normale questo sarebbe più che sufficiente, ma in Wagner non basta, perché le “arie” wagneriane non esistono come tali: sono scorporate, enucleate dall’opera in cui sono inscritte come pietre “cresciute” e modellate su un anello particolare, e che non possono essere reincastonate in altro contesto.
Vista in questa particolare ottica, quindi, una direzione fallimentare; in realtà, al massimo inoffensiva e ininfluente. Per un direttore come Tennstedt, un peccato: nel suo genere è stato un grandissimo. Per chi l’ha scelto, un fallimento: non metti un direttore sinfonista in un repertorio come questo
Che dire della Norman?
Che è fuori tempo massimo per un’operazione del genere, non anagraficamente ma vocalmente.
Che il suo Wagner è retorico e grondante, anche se la voce è brunita e con riflessi ambrati: soprattutto in un ruolo come Elisabeth, ma direi anche come Senta, al momento di questa registrazione erano già stati proposti altri modelli esecutivi. La Norman invece rimanda a vecchi modelli del passato.
Che gli acuti non sono più sfarzosi, pur non essendo affatto indecenti.
Che Wagner non è tutto uguale, e che l’aggettivo “wagneriano” applicato al sostantivo “soprano” è stupido almeno quanto “verdiano”.
Dei brani proposti, quello più interessante è forse la preghiera del Tannhäuser, non fosse altro che per la frequentazione di vecchia data: qui la Norman riesce a trovare un tono allo stesso tempo introspettivo e affranto che rende onore alla sua fama di grande interprete.
Il resto, purtroppo, non è così affascinante.
Del Liebestod abbiamo già parzialmente detto: non regge nemmeno lo strascico della versione che ne aveva proposto nel 1975. Il Dich, teure Halle manca dell’afflato visionario e della freschezza giovanile di altre interpreti (si pensi alla De Los Angeles o alla Silja, entrambe con Sawallisch).
Altro ruolo inadatto alla Norman specialmente di quegli anni è Senta: la ballata affoga in una noia mortale cui contribuiscono in egual misura la cantante che non è in grado di diversificare le frasi e il direttore che mena fendenti che nulla hanno a che vedere con la visionaria temperie romantica del brano.
Rimane l’Immolazione. Non è male, ma si percepisce la profonda estraneità della Norman a questo brano tanto lungo e complesso, di cui proprio non riesce a trovare la quadratura. Ci sono tante cantanti molto meno dotate vocalmente, ma che sanno esporre la materia di questa scena in modo infinitamente più appropriato.
Ci sarà un tempo in cui rivaluteremo i passaggi wagneriani della Norman. Ma temo che questo disco con ci sarà per niente d’aiuto
Pietro Bagnoli