Mission di Cecilia Bartoli
Aggiunto il 09 Ottobre, 2012
Tralasciamo la ricostruzione della figura storica di Agostino Steffani: la densa introduzione sul libretto (purtroppo, more solito, non in italiano) aiuterà anche i meno smaliziati a orientarsi sul periodo storico in cui l’autore visse. Ho qualche perplessità nel considerarlo l’anello di congiunzione musicale fra Cavalli e Haendel, ma – detto questo – va benissimo la riscoperta di un musicista non precisamente sconosciuto ma sicuramente non fra quelli il cui nome è sulla bocca di tutti; ogni riscoperta è sempre da salutare con entusiasmo perché ci permette di allargare le nostre conoscenze, di guadagnare consapevolezza stilistica e di capire meglio l’evoluzione del linguaggio musicale. Apprendiamo dal libretto introduttivo l’influenza che “La superbia d’Alessandro” di Steffani (1690) ha avuto sulla quasi analoga opera di Haendel, “Alessandro”, del 1726; ed è quanto meno curioso che, contemporaneamente a questo disco della Bartoli, esca una splendida incisione proprio dell’haendeliano “Alessandro”, per di più pubblicata dalla Decca, con la direzione (splendida) di George Petrou e la partecipazione, nel cast all stars (fra gli altri, Cencic e la Gauvin) di un’altra eccitante cantante dei nostri tempi, e cioè Julia Lezhneva!
Eccezionale, come sempre, il battage pubblicitario della Decca: tutto – a cominciare dalla copertina veramente trash, con qualche sentore de “L’esorcista”, inutile ai fini della comprensione del personaggio ma utilissima a stimolare la curiosità del potenziale acquirente – tutto, dicevo, è stato studiato per rendere il prodotto appetibile e in rampa di lancio per le vendite. Ma il marketing non si ferma qui: fra poco uscirà anche una trasposizione video del CD (in DVD e Blu Ray) e persino un gioco per iPad! Niente viene lasciato al caso, e il mercato ripaga: le prime copie del disco sono andate stra-vendute, a dimostrazione che nessuno vende come la Bartoli.
E che cosa vende, poi!
A fronte di – nessun accanimento, è solo il primo che mi viene in mente – un Grigolo che registra un disco cross-over, l’ennesimo patchwork pavarottiano di arie e canzonette, lei mette in campo Salieri, Gluck, Caldara, Araja e adesso anche Steffani.
E sbanca! Forse non come un rapper, ma sbanca!
Ci sarebbe da chiedersi le ragioni di questo successo e, soprattutto, chi siano i suoi acquirenti.
Le ragioni del successo penso che siano da cercare in un cocktail di ingredienti:
a) Il repertorio inconsueto: gli utenti ne hanno piene le tasche di sempre le solite cose. C’è voglia di cose nuove. E, forse, c’è in una fetta di utenti la voglia di andare alle radici, di risalire alle fonti
b) Il passaparola cui, ovviamente, non è estraneo il marketing della casa discografica. Ma c’è anche – si capisce – il “rumor” di tutti quelli che ne parlano male
c) Ma soprattutto il particolarissimo sound che Cecilia ha elaborato nel corso degli anni. Ne parleremo più avanti
Gli acquirenti sono più misteriosi. A sentirli, i sedicenti “addetti ai lavori” non se la filano di pezza, ma riesce difficile pensare che la Bartoli riesca a vendere i suoi dischi solo fra gli ascoltatori meno smaliziati. Credo quindi che in realtà la vendita sia assolutamente trasversale a tutti i settori di appassionati, comprendendovi anche e soprattutto quelli che a parole la disprezzano ma in realtà non possono fare a meno di ignorarla. E poi ci sono loro, gli ascoltatori comuni che si lasciano affascinare da questa strana artista e dalle sue doti mesmerizzanti.
Naturalmente ci sono anche i lati contro.
Questo rifugiarsi costantemente in un repertorio estetizzante, strano, desueto ha fatto sì che la cantante romana si sia avvitata su se stessa e sui suoi melismi. Ormai Cecilia è assolutamente prevedibile nelle arie di furore: colorature emesse come una mitragliatrice (anche se non più una mitragliatrice MG 42/59, come una volta) con vocalizzazioni su un fonema sgradevole, una specie di “eu” probabilmente vantaggioso per il fiato; e, ovviamente, isterismi profusi a piene mani.
Ora, gli isterismi andavano bene ai tempi del disco di Vivaldi quando nessuno ancora cantava in questa maniera e si pensava che i lavori teatrali del Prete Rosso fossero una rottura di palle infernale totalmente priva di teatralità. Non era così: e non credo sia un azzardo dire che, in Vivaldi, esiste un “prima” e un “dopo” Bartoli.
Gli isterismi andavano ancora bene nella funambolica già citata “Cadrò, ma qual si mira” di Araja, in cui Cecilia ci offre probabilmente il meglio della sua meravigliosa Arte. Un’Arte che, forse, non appartiene alla scrittura di nessuno degli autori che frequenta, ma che è stata ricreata completamente a sua immagine e somiglianza.
Ma adesso questi trucchi hanno segnato un po’ il passo e si sente, per una volta, il desiderio di qualcosa di diverso, anche perché di fenomeni vocali negli ultimi tempi ne stanno spuntando non pochi: una è, per esempio, la già citata Julia Lezhneva, che vede il suo nome in pole position nelle locandine delle nuove registrazioni come quella del già citato “Alessandro” di Haendel, oppure del vivaldiano “L’oracolo in Messenia” in cui, tutto sommato, non è nemmeno protagonista e canta solo due arie…
È forse anche per tale ragione che – mi sembra – Cecilia in questo disco sposta leggermente l’asse proponendo un certo numero di arie molto più tranquille, in cui può far valere le ragioni di un canto confidenziale, talvolta anche troppo: certi effetti sussurrati, o addirittura “sbadigliati” (si ascolti a tal proposito “Sì sì, riposa o caro… Palpitanti sfere belle”, una delle tante prime registrazioni mondiali di questo disco, in cui lei letteralmente sbadiglia, e per due volte!) risulterebbero veramente difficili da riprodurre su un palcoscenico teatrale. Il che va anche bene, ovviamente: siamo in sala di registrazione, tutto è lecito. Come ho già detto in altre occasioni, “The dark side of the moon” dei Pink Floyd, da molti considerato il più importante disco della storia della musica rock, è nato in studio.
Ma il quesito che mi pongo è un altro.
Atteso che queste composizioni non sono nate per la sala di registrazione, ma per il teatro; e dato comunque ovviamente per lecito il tentativo di Cecilia Bartoli di ridar loro la visibilità che meritano; non è che piuttosto corriamo il rischio di “bartolizzare” troppo questi brani – che non sono stati pensati per le caratterizzazioni tartassanti della Bartoli – sino a snaturarli?...
Certo, siano rese grazie a Cecilia per averli presentati al grande pubblico, ma la sensazione che queste composizioni siano snaturate dalla presenza soverchiante della grande interprete che ne fa qualcosa a sua immagine e somiglianza, è proprio difficile da scansare.
Faccio un esempio che magari chiarirà un po’ le idee al lettore. Nel disco dedicato a Vivaldi, il brano probabilmente più funambolico è quello di Idaspe del “Bajazet”: “Anche il mar par che sommerga”. Ascoltarlo per la prima volta nella lettura particolarissima e esagitata di Cecilia Bartoli è stata un’esperienza fondamentale. Ascoltare poi lo stesso brano cantato dalla Ciofi, che si è settata su un parametro espressivo più basso, ha dato la sensazione di una minor saturazione dei colori; il che non vuol necessariamente dire che quella della Ciofi fosse una lettura sbagliata. Oggi come oggi, la sensazione è piuttosto che quella di Cecilia fosse una lettura di un Vivaldi “bartolizzato”.
Affascinante, intrigante, esplosiva: ma non è Vivaldi.
Oggi la “bartolizzazione” sembrerebbe ridurre un po’ meno l’impatto delle vocalizzazioni ultra-rapide (che suonano anzi spesso un po’ sgradevoli) a vantaggio di suoni mesmerizzanti, alitati e – ovviamente – ben poco appoggiati; in ciò è assecondata strepitosamente dall’orchestra di Fasolis, geniale nel trovare timbri, colori e suoni che ben si sposano con le esigenze di questo tipo di impostazione. Si veda, per esempio, i mille colori cangianti di un brano come “Più non v’ascondo” in cui i colori orchestrali – ricchi di suoni spagnoleggianti – richiamano le risate e i moti di gioia espressi dalla Bartoli con le sue volatine.
Simpatico, ma ininfluente il contributo di Jarrousky.
Eccezionale, come già si è detto, il contributo degli splendidi Barocchisti di Fasolis, una delle migliori compagini specializzate in questo repertorio che esistano al mondo.
A margine, mi sia permessa una piccola osservazione.
Ferma restando – l’ho già detto, lo ripeto – l’esigenza documentaria, non tutto ciò che è rimasto sepolto dall’oblio secolare lo è in modo immeritato.
Ci sono cose molto belle, in questo disco, ma superata la curiosità per lo stile e i suoni, nel cuore e nella mente dell’ascoltatore resta veramente poco; e non è una questione di epoca storica.
Parafrasando Cocciante, questo è un disco bello senz’anima: ed è probabilmente il suo maggior difetto
Pietro Bagnoli