Nozze di Figaro
Aggiunto il 18 Dicembre, 2016
Mi aspettavo qualcosa di più da questa ultima prova discografica mozartiana del talentuoso Nézet-Séguin, fresco di nomina come direttore musicale del Metropolitan. Intendiamoci: non è che da lui ci si debba aspettare l’interpretazione che “spacchi” come succede con Currentzis o con i barocchisti. Il direttore canadese è un regolarista, che ha un’ottima musicalità e un più che adeguato senso del teatro. Lo ha dimostrato nelle sue già numerose prove teatrali e – tanto per stare a Mozart – con un Don Giovanni i cui gli elementi erano talmente ben assemblati da far dimenticare di trovarci di fronte a un prodotto nato vecchio.
Qui, invece, il gioco non regge per niente.
L’andamento della “folle journée” fa pensare a un sonnacchioso lunedì mattina in cui timbrare il cartellino e… sperare che finisca presto.
Ritmi mortiferi, slentati.
Totale mancanza di senso del teatro, nonostante le gag che alcuni cantanti – il devastato Villazón su tutti – cercano di mettere in campo per dare vitalità a una roba che sembra un Requiem; e di quelli particolarmente bolsi, per di più.
Sin dalla celeberrima ouverture – che dovrebbe schizzare letteralmente come una frustata – si sente una nenia carina che procede senza particolari patemi sino alla fine, cercando una “giustezza” di tono che ricollochi l’opera un sorta di aurea mediocritas che rimandi a modelli affidabili e ripetibili.
Quali sono questi modelli?
Il ritmo pacioso rimanda ovviamente Karl Böhm, Colin Davis, al limite Barenboim; escluderei invece il suo predecessore al Met, Jim Levine, che pur non essendo interprete accusabile di eccesso di fantasia, ha sempre messo il teatro al centro del proprio orizzonte.
Qui c’è un’alternanza molto olimpica: aria-recitativo-duetto-recitativo-aria, eccetera; tutto scorre serenamente sino alla fine, senza il minimo contrasto, senza un’idea interpretativa che sia una.
Cosa vuole evidenziare il direttore? Le storie d’amore incrociate dei protagonisti? La rivolta sociale di Figaro? L’umanità devastata del Conte? L’ambiguità di Cherubino?
Francamente non si capisce: è una qualunque mattina feriale in un palazzo di persone ricche. Credo di non essermi mai annoiato così tanto in vita mia nell’ascolto di questa musica sublime.
Il problema principale, ovviamente, è nel manico.
Nessuno nega l’abilità di Nézet-Séguin che non si trova per caso nel posto che occupa. Tra l’altro, aver scelto per un’operazione del genere un direttore con queste caratteristiche la dice lunga sul desiderio di superare almeno momentaneamente gli estremismi che avevano caratterizzato le registrazioni più recenti, e cioè Jacobs e Currentzis. Questo tentativo di restitutio ad integrum esiste in molti repertori, ma in particolare in quello mozartiano in cui le incursioni di direttori barocchisti o in vario modo eccentrici sono sempre state viste come stupri.
Personalmente la penso in modo diverso, ma è un’opinione personale.
È però indiscutibile che l’approccio di questi direttori così caratterizzati abbia portato allo scoperto – oltre a sonorità particolari, che esistevano già in nuce ma non erano ancora state rivelate – anche tutta la teatralità di cui immaginavamo l’esistenza ma con cui ancora non ci eravamo confrontati. E questo spesso è avvenuto di pari passo con registi che, lavorando in perfetta simbiosi col direttore (si pensi, per stare alle Nozze, al rapporto fra Harnoncourt e Guth), hanno creato dei veri e propri capolavori intrisi di spirito mozartiano.
È possibile che questo gioco sia stato spinto un po’ troppo oltre, creando un reflusso reazionario che – nelle intenzioni di chi se ne fa promotore – dovrebbe portare al ripristino di una prassi esecutiva che metta l’Autore e le sue (ideali) ragioni al centro dell’attenzione degli interpreti.
Ma quello che si sta osservando in questo momento storico è un problema diametralmente opposto: per reazione a ciò che era precedentemente visto come eccentrico ed esagerato, si arriva a una linea meramente esecutiva che, per voler mettere in mostra le bellurie dell’argenteria di famiglia lucidata di fresco, porta a un appiattimento desolante.
È il caso di questa registrazione che si presta magnificamente a esemplificare questa tendenza.
Non c’è niente di veramente brutto nella linea musicale del direttore canadese, ma quello che dice è del tutto privo di interesse. È un’edizione nata vecchia e, conseguentemente, del tutto inutile. Per avere un imitatore di Colin Davis, mi rivolgo all’originale.
Ma esiste chiaramente un problema non banale anche nel canto.
Hampson, per esempio, a questo punto della sua gloriosa carriera è assolutamente afono e inascoltabile. Certo, il fraseggiatore di classe si inventa sempre piccoli miracoli di espressione, ma ormai non c’entra più nulla né con un repertorio del genere, né più in generale col canto lirico.
Disastrosa anche la von Otter, cantante che io ho amato immensamente, ma che non ha né il piglio da cialtrona per fare una Marcellina attendibile, né le sia pur minime agilità che pure, una volta, aveva nitidissime e che giustificavano il suo impiego in opere come “Ariodante”. Si sente la mancanza di vecchie carampane come Felicity Palmer che sapevano come rendere pimpante una parte come questa.
Ma per pessime che siano le prove di questi due ex grandi cantanti, sono ancora niente a confronto di quello che fa sentire Villazón il cui impiego in questa parte – pur meno dannoso che in altri ruoli mozartiani parimenti registrati – è assolutamente incomprensibile.
La Karg è carina e canta da discretamente a benino, ma non dice nulla di interessante in un ruolo come Susanna in cui è stato detto di tutto e di più. Il duettino con la von Otter è una pizza colossale, e ce ne vuole per renderlo noioso… I suoi momenti solistici passano del tutto inosservati, con una menzione di particolare demerito per “Deh vieni non tardar” che manca totalmente di abbandono, languore e sensualità.
Idem, forse un po’ meglio, per la Yoncheva: una che normalmente sa quello che dice e sa come dirlo, ma fa una Contessa talmente mesta da sembrare un salice lacrimante, più ancora che piangente.
La Brower ripropone alla fine di “Voi che sapete” la cadenzina che aveva già fatto la Bartoli con Abbado, ma lì si ferma la sua caratterizzazione. È più soprano che mezzo e non si distingue né da Susanna né dalla Contessa.
Altra cantante affetta da linfatismo e noia mortale è Regula Mühlemann, una delle Barbarine più pallose in cui mi sia mai imbattuto.
Muraro è piacevolmente sopra le righe, e se ne sente il bisogno in un contesto così loffio.
Splendido il sound della Chamber Orchestra e ottimo davvero il continuo al fortepiano realizzato dal bravissimo e fantasioso clavicembalisto Vinikour, allievo di Kenneth Gilbert.
E arriviamo a Pisaroni, che non solo è il migliore della compagnia – e non ci vuole tanto – ma è anche bravissimo in senso più generale. Bella voce, spigliato, teatrale, senso del ritmo: sembra capitato per caso in questo contesto così noioso.
Basta la sua presenza a nobilitare questa registrazione?
Secondo me, no.
Pietro Bagnoli