Caterina Cornaro
Aggiunto il 28 Aprile, 2016
I mesi intorno alla fine del 1842 sono per Gaetano Donizetti di piena fibrillazione. In settembre firma un contratto con il Théâtre-Italien con il quale viene commissionata una nuova opera buffa (che sarà poi Don Pasquale) e l’adattamento della Linda di Chamounix, che aveva già ottenuto un grande successo a Vienna nel maggio dello stesso anno. Don Pasquale viene completata in pochissimo tempo: già a novembre iniziano le prove e il 3 gennaio 1843 l’opera va in scena con un successo strepitoso, complice anche il prestigioso quartetto vocale dei protagonisti, ovvero Tamburini, Mario, Lablache e la Grisi.
Grazie a una lettera destinata a Giovanni Ricordi, possiamo ascrivere a questo periodo i primi schizzi e pensieri del nostro compositore per un’opera incentrata sulla figura di Caterina Corner da presentarsi al Kärtnerthortheater di Vienna. Purtroppo sopraggiunge da subito una complicazione: per la medesima stagione nella quale Donizetti deve espletare il proprio contratto, è già prevista a Vienna un’opera dal titolo Catharina Cornaro, del compositore tedesco Franz Lachner. Il teatro viennese quindi obbliga Donizetti a cambiare soggetto per l’opera prevista dal contratto. Lasciamo le vicende del contratto da assolvere per il Kärtnerthortheater (e l’opera che ne conseguirà sarà Maria di Rohan) e seguiamo le vicende della storica regina di Cipro, alla quale ormai il compositore bergamasco si era affezionato.
Le intenzioni di Donizetti son quelle di proporre la Cornaro in un altro teatro (secondo alcune lettere propenderebbe per la Scala); sicuramente era impossibile Parigi perchè era stata già presentata nel 1841 La Reine de Chypre di Fromental Halévy, che per altro ebbe protagonista il grande Gilbert Duprez. Nello stesso tempo Donizetti doveva ancora scrivere un’opera per Napoli; parrebbe il soggetto fosse un dramma che seguisse le vicende di Ruy Blas, per il quale Salvadore Cammarano aveva già ottenuto l’approvazione della censura nel settembre del 1842, seppure con notevole ritardo. Il compositore si impunta per cambiare il soggetto e fa di tutto per trattare con l’impresario del San Carlo, Vincenzo Flauto che, succube dell’illustre compositore, acconsente. L’impresario cerca di far modificare il libretto già esistente di Giacomo Sacchero, residente a Milano, a Salvadore Cammarano secondo i dettami della censura. Cammarano è sempre stato l’uomo più fidato di Donizetti ma, al momento di lavorare sul soggetto di Caterina Corner, era indisponibile perchè preso a lavorare su altri progetti. Oggi abbastanza sconosciuto, Giacomo Sacchero, catanese di nascita, repubblicano e aderente ai moti del 1848, nella prima parte della propria carriera si dedicò alla letteratura, con particolare interesse nella scrittura di libretti d’opera, arrivando a collaborare con Donizetti per l’appunto e con Federico Ricci per il suo melodramma Corrado d'Altamura, che ebbe grande successo alla Scala nel 1841.
Come dimostrano alcune lettere, Donizetti completò buona parte dell’opera prima del 30 maggio 1843. Queste lettere dimostrano la preoccupazione e l’ansia del compositore nel terminare quanto prima Caterina Cornaro. Infatti la silfilide avanzava il proprio decorso e Donizetti aveva paura di non poter completare l’opera. Non potendo poi spostarsi da Parigi e quindi sovrintendere alle prove e alla concertazione, lasciò allora il materiale già pronto della Caterina Cornaro ai suoi più fidati amici napoletani, Tommaso Persico e il pittore Teodoro Ghezzi in modo che essi potessero dargli quanti più consigli possibili in modo da aiutarlo a terminare la composizione e in ogni caso consigliò loro che per ogni evenienza potevano fare affidamento sul solo valido compositore di cui egli si fidava in Napoli: Saverio Mercadante.
A inizio 1844 Donizetti dovette viaggiare alla volta di Vienna da cui scriverà al cognato Toto Vasselli una tragica profezia: “Attendo con ansietà le nuove del fiasco di Caterina Cornaro a Napoli. La Goldberg per primadonna è la mia prima rovina senza saperlo. Scrissi per un soprano, mi danno un mezzo! Dio sa se Coletti, se Fraschini intendono le parti come le intesi io; Dio sa se la censura qual macello ha fatto”. Prevista inizialmente nel luglio 1843, la prima della Caterina Cornaro dovette attendere fino al 18 gennaio 1844. E fu un sonorissimo fiasco, proprio come da previsione dello stesso compositore. Più che per ragioni di cast o di censura, Caterina Cornaro pagò il fatto di essere un’opera per nulla convenzionale, assolutamente non adatta al conservatorismo del pubblico napoletano. C’è qualcuno però che credette nel valore di quest’opera: il celebre baritono Felice Varesi. Grazie alla sua intuizione e alla sua volontà di interpretare il re di Cipro, Donizetti riproporrà l’opera a Parma (con il finale revisionato il 2 febbraio 1845) ove godrà finalmente di un grande successo grazie ai suoi nuovi interpreti: Marianna Barbieri-Nini (creatrice del ruolo di Lady Macbeth), il tenore Nicola Ivanoff e per l’appunto Felice Varesi. Da quel momento l’opera scomparve completamente da ogni palcoscenico finchè, nel 1972, il Teatro San Carlo decise di recuperare il titolo con Leyla Gencer, Renato Bruson e Giacomo Aragall. La Gencer e Montserrat Caballé ne faranno poi un proprio cavallo di battaglia negli anni Settanta.
La struttura temporale e topografica dell’opera pare seguire quella utilizzata nella Lucrezia Borgia: il prologo si svolge a Venezia, mentre i due atti successivi si svolgono in un’altra città (in dettaglio: Cipro nella Caterina Cornaro e Ferrara nella Lucrezia Borgia).
Il prologo ci mostra dunque Palazzo Corner a Venezia, a metà del XV secolo. Cavalieri e dame sono stati inviati alla festa nuziale di Caterina, figlia di Andrea Cornaro, con il cavaliere francese Gerardo. I due sposi intonano quindi un duetto (“Tu l’amor mio, tu l’iride”) ma subito irrompe un personaggio mascherato che fa sospendere la cerimonia. Viene lasciato solo con Andrea e si svela: si tratta di Mocenigo, un membro del consiglio dei dieci. Egli afferma che è volere del senato che sua figlia Caterina dovrà sposare il re di Cipro, Lusignano. Ogni rifiuto sarà punito con la morte. Andrea, attonito e spaventato, informa gli invitati che il matrimonio non può avere luogo. Tutti rimangono allibiti. Caterina torna quindi nella sua camera e ascolta un canto lontano di gondolieri che ritornano dalle proprie moglie a chiusura della giornata. Questa felicità contrasta con i suoi sentimenti ma entra Matilde, la sua confidente: reca uno scritto di Gerardo il quale giungerà a momenti per portarla via. Caterina ha allora un moto di speranza (cavatina “Vieni, o tu che ognora io chiamo” e cabaletta “Ah, vieni, t’affretta”). Arriva però Andrea Cornaro che racconta alla figlia l’accaduto; lo stesso è confermato da Mocenigo che consiglia a Caterina di dire a Gerardo di non amarlo più e che aspira a un ben più nobile matrimonio. Giunge Gerardo per rapirla ma rimane scioccato e confuso alla (falsa) confessione di Caterina. Mocenigo spia, non visto, che le cosa vadano per il meglio. Gerardo dà l’eterno addio all’amata.
Come il prologo, anche il primo atto è bipartito e si svolge tempo dopo la scena veneziana. Nella prima parte ci troviamo sulla piazza di Nicosia, di notte. Mocenigo trama per suscitare una rivolta che renda Venezia padrona della ricca isola (aria “Sei bella, o Cipro”). Strozzi, capo dei suoi scagnozzi, porta una notizia: sta per giungere sull’isola proprio Gerardo e Mocenigo invoca anche la morte del gentiluomo francese. Alla loro uscita fa seguito Lusignano. Egli si dichiara consapevole del fatto che, con il matrimonio, è caduto nel complotto dei Veneziani: Caterina è stata una pedina nelle mani del Consiglio (aria “Da quel dì che Caterina”). Egli cercherà comunque di resistere quanto possibile alle trame veneziane, consapevole anche dell’infelicità di Caterina, obbligata a sposarlo senza amarlo. Segue quindi un feroce coro di cospiratori, che preparano l’imboscata a Gerardo. Egli però chiama aiuto, e l’attentato è sventato da Lusignano. I due pian piano iniziano a fare conoscenza delle rispettive identità e Gerardo viene a sapere che il salvatore è proprio il re dell’isola. Lusignano viene a conoscenza del rapporto che legava Gerardo a Caterina e Gerardo prova vergogna per l’odio manifestatogli in precedenza, e inizia un cantabile che esprime al re il dolore patito (duetto “Vedi: io piango”). Entrambi si dichiarano vittime delle macchinazioni di Venezia. Il re risponde con parole di perdono, e i due si giurano eterna fedeltà: come un fratello, Gerardo veglierà sul re minacciato.
Nella seconda scena del primo atto, al palazzo, le ancelle di Caterina cercano di consolare la sua tristezza. Entra anche Lusignano e fa del proprio meglio per metterla a proprio agio e le dichiara di essere a conoscenza di quanto ella ha dovuto sopportare (romanza “Non turbarti a questi accenti”). Strozzi, che pare abbia anche un incarico a palazzo, informa il re che un gentiluomo francese desidera parlargli. Lusignano allora chiede alla regina di accogliere lo straniero al suo posto. Strozzi riconosce allora Gerardo e va ad informare Mocenigo. Nel frattempo Gerardo viene ricevuto dalla regina; i due si riconoscono, Caterina ha occasione di giustificare il suo antico rifiuto spiegandone le ragioni (duetto “Da quel dì che lacerato”). Come già nel dialogo con il marito, anche ora i sentimenti di Caterina sono quasi velati da un’ombra di pudore e da uno spirito di rassegnazione che, nella cornice a fosche tinte dell’opera, sembrano essere le dimensioni espressive predominanti dei nobili protagonisti; essi sono infatti consapevoli che il loro amore, ancora vivo, deve essere sacrificato agli obblighi sociali a cui sono vincolati. Gerardo allora mette in allerta Lusignano: la sua vita è in pericolo perchè i veneziani gli stanno somministrando un veleno a piccole dosi e per questo il re è sempre ammalato e affaticato. Appena però Gerardo rinnova le sue promesse di protezione fa irruzione Mocenigo che dice che ormai ogni sorta di protezione è tardiva. Ammette di essere responsabile della malattia di Lusignano e minaccia Caterina: se non parteciperà secondo i voleri di Mocenigo e del senato veneziano sarà accusata di adulterio, di rivoltosa ed ella stessa verrà incolpata della morte di Lusignano. Il re appare e cerca di difendere Caterina: sarà lui stesso a difenderla dalle ingiuste accuse. Tenta di fare arrestare Mocenigo ma quest’ultimo fa cadere un fazzoletto dalla finestra: è il segnale ai cospiratori e immediatamente parte un colpo di cannone. Mocenigo dichiara guerra a Cipro e l’atto termina mentre Lusignano inizia un duello con il cospiratore veneziano.
Il secondo atto ha luogo interamente in un cortile del palazzo. Gerardo cerca di unire i ciprioti in difesa attorno al loro re mentre ormai infuria la battaglia. Le dame di corte descrivono il tumulto che le circonda in un coro contrappuntistico violentemente descrittivo. Giungono inaspettatamente voci di esultanza: Lusignano è vittorioso. La gioia però ha breve durata: entra il re ferito a morte e sorretto da Gerardo. Il sovrano ha giusto il tempo di affidare il regno alla sposa. Appena spira, il suo corpo è portato via e, con impeto eroico, Caterina chiude l’opera con una preghiera affinchè Dio protegga la libertà del suo popolo (aria nel finale napoletano “Pietà, o Signor, ti muovano”). Gerardo e Cipro tutta si inchinano alla loro regina.
Esiste inoltre l’autografo della revisione del finale dell’atto secondo: in questa seconda versione Gerardo muore in battaglia, Lusignano torna agonizzante da Caterina e spira tra le sua braccia. Non c’è alcuna traccia dell’aria finale della protagonista. La revisione fu approntata in fretta e furia da Donizetti e mandata a Parma all’amico Varesi ma non sappiamo se essa fu realmente utilizzata alla ripresa nella città emiliana. Infatti il libretto pubblicato per queste rappresentazioni indica ancora il finale napoletano, probabilmente perchè la revisione arrivò troppo tardi per inserirla.
Per scrivere il proprio libretto, Giacomo Sacchero si ispirò a quello approntato da Jules-Henri Vernoy de Saint-Georges per l’opera di Halévy. Il librettista di Donizetti cercò di riassumere i cinque atti di Saint-Georges in una struttura più snella. I primi due atti dell’opera francese divennero il prologo veneziano del dramma di Donizetti; il terzo atto divenne il primo quadro del primo atto di Caterina Cornaro mentre il quarto atto di Halévy, che comprendeva l’inevitabile momento del balletto e delle danze previsto dal Grand-Opéra, venne completamente ignorato dalla coppia italiana e comprendeva anche un momento in cui Gerardo si fa riconoscere dai regali ciprioti in una cattedrale ed è un momento di stasi, tipico dell’opera francese. Sacchero elimina questa parte e va all’essenziale: l’azione della sua Caterina Cornaro riprende con il quinto atto, ove però il primo quadro era stato spostato come secondo del primo atto e il secondo quadro diviene il secondo atto. L’essenzialità e la velocità delle azioni fan sì che il secondo atto duri, nell’opera di Donizetti, una ventina di minuti, e che comprenda l’aria di Gerardo “Io trar non voglio campi ed onori” a cui segue un breve coro femminile (“Oh ciel! Che tumulto!”); e il finale secondo che ingloba l’aria bipartita di Caterina (nella versione napoletana), ovvero consta degli ingredienti tipici dell’opera italiana dell’epoca. Il testo di Sacchero è per altro un dramma impregnato di valori risorgimentali: con impeto epico e risorgimentale, Caterina conclude l’opera chiedendo un giuramento di fedeltà al suo popolo, con uno slancio patriottico che fa presagire i moti dell’imminente ’48 italiano (“Non più affanni, o mie genti, e preghiere”). Inoltre ricordiamo che le vicende di Caterina Cornaro vennero anche dipinte da Francesco Hayez in un celebre quadro del 1842.
Come sempre Opera Rara ci consegna un fantastico prodotto editoriale, corredato da un ottimo libretto con un lungo saggio in inglese (a cura di Jeremy Commons), trama anche in italiano, libretto e numerose immagini degli interpreti di ieri e di oggi. La grossa differenza rispetto però ad altri melodrammi commercializzati dall’etichetta inglese è che per Caterina Cornaro non è ancora disponibile un’edizione critica dell’opera. Pur considerando questa mancanza, Opera Rara propone nei due cd entrambi i finali: quello previsto inizialmente per il San Carlo e, in appendice, l’esecuzione dell’autografo per Parma, che rappresenta quasi sicuramente una volontà dell’autore di lasciare come definitiva sia la morte di Lusignano sia quella di Gerardo, imprimendo all’opera una maggiore drammaticità, senza alcun barlume di speranza.
Dal punto di vista drammaturgico Caterina Cornaro vanta molti motivi di interesse. Il prologo dell’opera è molto accattivante a livello di ambientazione sonora perchè va ad inserirsi in un interesse verso la città di Venezia (e le fosche trame che si consumano tra le nebbie lagunari) tipico del melodramma ottocentesco, e abbiamo esempi in Bianca e Falliero (1819) di Rossini, Marin Faliero (1835) di Donizetti, fino alla più tarda La Gioconda (1876), passando per I due Foscari (1844), opera che pare Donizetti avesse avuto modo di ascoltare e che nella Cornaro ha diversi riflessi involontari. L’opera infatti si apre con una barcarola strumentale (una meravigliosa melodia affidata ai violoncelli su cui si innesta un dialogo tra corni e clarinetto) che verrà poi riascoltata da Caterina nelle proprie stanze, cantata questa seconda volta dai gondolieri di ritorno a casa dopo la giornata di lavoro. Questo tocco di colore veneziano era un elemento già presente nell’opera verdiana e anche in quel caso era un motivo ricorrente lungo i tre atti del melodramma. Di contro, essendo gli altri due atti ambientati a Cipro, sono presenti anche momenti dall’accento marcatamente esotico, come per esempio l’apertura del primo atto, ambientato in un mare immerso nella notte cipriota. Interessante è anche l’utilizzo della banda sul palcoscenico, elemento tipico del melodramma italiano del primo Ottocento, che accompagna l’entrata di Lusignano morente alla fine del secondo atto.
Purtroppo tutto questo colore musicale non è quasi per nulla presente nella visione di David Parry, pur considerato da molti uno specialista nel repertorio belcantistico. Il direttore inglese è bravissimo a tenere le redini della drammaturgia dell’opera, molto attento ai cantanti e a una caratterizzazione teatrale assolutamente necessaria in un’opera quanto mai d’azione come la Caterina Cornaro è. Discreti sono anche i momenti di puro accompagnamento ai cantanti in cui offre loro le agogiche giuste al fine di non andare mai in affanno ed essere completamente a loro agio. Non si addentra mai però in soluzioni interpretative che possano infiammare i sentimenti dell’ascoltatore, nè sa cosa possano essere i colori tipici del melodramma italiano. Possiamo dire che non ha quella scintilla di genio che servirebbe a far uscire queste opere rare dal dimenticatoio, e pare piuttosto non credere neppure lui nel recupero di questa partitura.
I BBC Singers corredano l’orchestra con bel amalgama e un buon timbro complessivo. Sanno rendere al meglio tutte le sfaccettature che Donizetti, come poi farà anche Verdi, richiedono al coro: dapprima gioiosi e giustamente festanti nel coro nuziale, poi ottimi nel canto dei gondolieri che fa da sfondo alla tristezza di Caterina e il coro femminile ha sempre il giusto accento patetico e quasi intimorito dalle fosche vicende, per non parlare infine delle nefande crudezze degli sgherri di Mocenigo (primo atto, “Core, e pugnale”), uno dei più completi e intriganti coro di cospirazione dell’opera ottocentesca.
La politica di selezione di Opera Rara è sicuramente condivisibile: proporre all’ascolto del pubblico di nicchia voci giovani (o sconosciute) che non hanno alcun contratto in essere con le più prestigiose case discografiche; Opera Rara condivide con loro il progetto di ogni singola partitura, li convolge creando un cast affiatato affinchè possano essere dei cantanti di riferimento per il futuro nel repertorio belcantistico. Spesso però bisogna guardare l’altra faccia della medaglia: alcune opere, per uscire dalla patina del tempo e dalla routine, necessitano di essere supportate da un direttore con ottime idee e da interpreti che possano dare lustro all’esecuzione che, parlando di Opera Rara, spesso si tratta di edizioni critiche e/o nel loro complesso assolutamente più complete possibile.
In quest’ottica, il membro migliore del cast è senza ombra di dubbio Carmen Giannattasio. Il soprano campano è bravo a rendere ogni singola nota richiesta da questa partitura ed è una buona esecutrice delle figure richieste dal belcanto, accompagnata per altro da bel timbro brunito. Non riesce però a superare la mediocrità e una qual certa noia, non sa sparire dietro estatici pianissimi, oppure non sa mai virare di inflessione variando le velocità (complice anche Parry?), e ogni tanto pecca anche leggermente di intonazione. Una prova comunque mediamente sufficiente, ma purtroppo la Giannattasio non da prova di essere una vera diva del belcanto e la parte di Caterina chiede un’interprete che osi di più.
Per il ruolo tenorile di Gerardo la scelta è ricaduta su Colin Lee, e non potrebbe essere meno azzeccata. Lee possiede un’ottima tecnica belcantista, ma il suo è un timbro molto chiaro, povero e risulta essere nulla più di un buon tenorino di grazia rossiniano, mentre il personaggio di Gerardo dovrebbe assomigliare maggiormente a un tenore di calibro simil-eroico come potrebbe esserlo il verdiano Jacopo Foscari. In ogni caso se la cava abbastanza bene nell’aria con che apre il secondo atto, dall’estensione abbastanza impervia. Come la Giannattasio inoltre la sua risulta essere un’interpretazione piatta, slavata e monocorde seppure le note ci siano (quasi) tutte.
Il baritono americano Troy Cook incarna re Lusignano e si destreggia con buona volontà interpretativa, ma purtroppo il suo mezzo vocale è tutt’altro che piacevole, di grana tendente al grezzo e vuoto negli acuti. Ben esemplificativa è l’aria “Non turbarti a questi accenti” in cui fa del suo meglio per rendere quanto più teatrale possibile l’esecuzione. L’aria di entrata invece, che Donizetti e Sacchero avevano pensato come un’irruenta cabaletta, è trattata con sommario accento e partecipazione, nonostante sia uno dei fulcri del personaggio di Lusignano e mostri bene il carattere altruista del buon sovrano di Cipro. Discreto è il duetto con Gerardo in cui però sia Cook sia Lee non hanno lo spessore vocale per sopportare questo significativo brano, che contiene al suo interno uno stupendo cantabile per Lusignano, e si inserisce nella tradizione ottocentesca dei duetti di amicizia maschile (esempio è quello tra Belisario e Alamiro, oppure il più famoso del Don Carlo verdiano).
Il ruolo mefistofelico di Mocenigo è interpretato dal sudafricano Vuyani Mlinde. Anche lui si barcamena nella piattezza esecutiva e nella mediocrità, non sa sostenere un ruolo di importanza drammaturgica fondamentale all’interno dell’opera sebbene la grana vocale sia assolutamente corretta e abbia le potenzialità necessarie per far decisamente meglio. La prima scena del primo atto lo vede protagonista vocale ma anche d’azione: tratta vocalmente abbastanza bene la breve aria (“Sei bella, o Cipro”) ma perde totalmente ogni buona intenzione quando il canto si fa azione nel successivo incontro con Strozzi.
Davvero pessimi invece il timbro e la tecnica vocale intubata di Graeme Broadbent come Andrea Cornaro, mentre interessante è il tenore Loïc Félix nel doppio ruolo di Strozzi e del servitore. Corretta e nulla più Sophie Bevan.
Un prodotto editoriale ottimo per quanto riguarda la presentazione del materiale e della sua interezza, ma purtroppo questa volta la missione di Opera Rara fallisce. Avrebbe potuto davvero essere un nuovo punto di riferimento per la discografia di quest’opera se solo fossero stati più accuratamente scelti gli esecutori di un titolo interessante e dal potenziale drammaturgico fortissimo quale è la Caterina Cornaro.
Fabrizio Meraviglia