VERISMO ARIAS di JONAS KAUFMANN
Aggiunto il 26 Settembre, 2010
Può il più grande Lohengrin e il più grande Werther dei nostri tempi mettersi le braghe di fustagno e trasformarsi in un autentico “tenore italiano”?
La risposta è ovviamente no: col che, la recensione di questo disco – che pure ha qualche momento interessante – potrebbe già chiudersi, sennonché il protagonista di questa crestomazia è troppo importante ed ingombrante per essere liquidato in due parole. Per cui allarghiamo volentieri il discorso, anche se con la consapevolezza che questo disco, oltre a segnare una regressione rispetto al precedente “Sehnsucht”, apre uno scenario purtroppo prevedibile nell’evoluzione di un cantante tanto prezioso.
Chi è Jonas Kaufmann? A tutt’oggi, il tenore più importante del mondo.
Un materiale vocale di primissimo ordine.
Acuti facili, splendenti, pur se non amplissimi come espansione, e questo è un limite che condivide con Bepi Giacomini, il cantante che vocalmente più gli assomiglia fra quelli di un recente passato e cui si accomuna per una certa assonanza con Franco Corelli. Sennonché il tenore marchigiano – di gusto interpretativo spesso urfido ma di voce unica al mondo – aveva acuti che si espandevano come infiorescenze meravigliose. Pensiamo al grandioso “Sfolgorò divino raggio”: quella nota, a tutt’oggi, se la batte ancora solo con un’altra per il titolo di “Più bella di sempre”, ed è il do smorzato di Pippo Di Stefano nel “Salut demeure chaste et pure” del Metropolitan 1948. Kaufmann – per tornare in topic – è lontano le mille miglia da una prospettiva del genere e, anzi, questo disco palesa alcuni problemi che il nostro Maugham aveva intravisto in nuce nella “Tosca” di Monaco di quest’anno.
Ciò che ancora c’è di bello sono le smorzature, i pianissimi, i filati, persino i fiati immensi e interminabili che Kaufmann dispensa a piene mani. Di queste bellurie ce n’è in abbondanza nel disco diretto piuttosto bene da Pappano: penso alla colonna di fiato che regge le ampie arcate delle frasi di “Amor ti vieta”, oppure le smorzature sul fiato di “Cielo e mar!”, brano di squisita lettura vocale.
Ci sono però anche delle cosucce che non vanno: per esempio i sanglots o “colpi di glottide” che dir si voglia che, in un tenore con le sue caratteristiche, possono significare solo due cose: che qualcosa si sta modificando (ovviamente in negativo) nella sua organizzazione vocale, oppure che sta facendo fatica perché si muove in un repertorio sbagliato. Fra le due ipotesi propenderei tendenzialmente per la seconda, anche perché è la conferma di quello che questo sito ha sempre sostenuto: non esiste una sola tecnica vocale, ne esistono diverse, Kaufmann è un declamatore puro (non ha torto chi lo ha definito il più importante heldentenor dai tempi di Jon Vickers), non potrà che trovarsi a mal partito con questi brani da “tenore italiano” nel senso più classico – e, se vogliamo, deteriore – del termine.
Perché un tenore declamatore – lo ripeto: il Lohengrin più importante dei nostri tempi – deve fare a tutti i costi un disco di arie del Verismo italiano? Perché vuole darsi una visibilità da tenore nazional-popolare? O perché vuole uscire dai ristretti ambiti degli appassionati del tardo romanticismo o di Wagner-Marschner- Strauss-Korngold e Novecento mitteleuropeo? Se lo vuol fare, si accomodi: abbiamo già perso per analoghi motivi una delle voci di tenore più interessanti degli ultimi cinquant’anni, e cioè Marcelo Alvarez, uno che agli inizi della sua carriera cantava più che decorosamente Arturo dei “Puritani” e adesso canta malamente tutto il grande repertorio, da Radames a Cavaradossi, con le intenzioni di un autentico tenore posteggiatore. Farà tutti i soldi che vuole, ma perderà le peculiarità che hanno fatto di lui il cantante più importante del momento.
Ma la colpa non è ovviamente solo sua. Ci sono anche i “consigliori”. E ci sono, beninteso, i produttori discografici che, in occasioni del genere, danno il peggio di se stessi.
Perché in un disco di Verismo devono essere assemblate le solite, stesse, eterne arie, trite e ritrite, cantate da centinaia di tenori con risultati alle volte indimenticabili, tra l’altro mettendoci dentro arie di Boito che semmai appartiene alla temperie culturale della Scapigliatura? Perché non osare brani di autori decisamente sconosciuti o di opere ormai dimenticate? Penso per esempio al “Piccolo Marat”, che sarebbe un gran bel banco di prova per un tenore con le sue ambizioni. E invece no!
C’è l’immancabile “Cavalleria”, con un impresentabile Brindisi e un Addio alla madre grondante sentimentalismo da quattro soldi, mentre manca la Siciliana che, invece, sarebbe stata ben più interessante come banco di prova.
C’è l’immancabile “Vesti la giubba”, berciata con la bava alla bocca, con il solito tono perennemente incazzato con il mondo! E a questo proposito: possibile che mai nessuno si sforzi di trovare strade interpretative diverse? Nessuno che abbia mai pensato ad un tono fra l’estatico e l’allucinato? Oppure la sorridente follia di un uomo impazzito dal dolore?
C’è – incredibile dictu! – “Il lamento di Federico”. Per carità: è cantato benissimo. Di più: è uno di quei brani in cui Kaufmann si sforza maggiormente di trovare il tono giusto ed è concluso da una puntatura (credo che sia un do) di notevole bellezza.
C’è il Giordano più sentimentale, e non quello che avrebbe esaltato le virtù declamatorie di Kaufmann: penso ovviamente a “Sì, fui soldato!”, spesso maltrattata da tenori che non riescono ad esimersi dal fare i sentimentali giuggioloni anche nel momento in cui il personaggio che interpretano viene condannato a morte e che invece potrebbe ricevere linfa nuova da un declamatore vero. E invece c’è “Come un bel dì di maggio”, che richiede un legato impegnativo e che esce singolarmente sciatto nell’espressione; c’è un “Improvviso” cantato con sovrana indifferenza; e c’è un duetto finale solo un po’ meglio perché trascinato da una veemente ed impetuosa Westbroek, la quale però deve rifuggire dalla tentazione di cercare di trasformarsi nella nuova Tebaldi, perché per lei si pongono gli stessi problemi di Kaufmann: è una declamatrice. Punto.
Ci sono i due brani di Boito e questa, come detto, è una strana scelta, perché Boito NON è un autore verista; e, tra l’altro, entrambe le arie sono tirate via maluccio, anche perché mettono veramente alla frusta la vocalità di un cantante come lui.
Ci sono i due brani dell’Adriana (tra l’altro vengono curiosamente presentati con ordine invertito), che non sono niente belli non per le bellurie esibite, ma perché si ha la sensazione che tali bellurie davvero non c’entrino nulla e che siano appiccicate lì come ornamento. E questa considerazione vale soprattutto per “L’anima ho stanca”, che vive di contrasti fra le smorzature davvero belle e il singhiozzone a metà strada.
E così via, con la già citata eccezione – a mio gusto – di un davvero eccellente “Cielo e mar” e col piacere edonistico di una bella esibizione di fiati eterni in “Amor ti vieta”.
Insomma, Kaufmann non la imbrocca proprio. A dirla tutta, per chi lo conosce e lo ama – e noi di Operadisc siamo fra quelli – si ha la sensazione che il bel Jonas sia un pesce fuor d’acqua in questo repertorio, per il quale è costretto ad inventarsi un tono posticcio, farlocco, con il risultato che non gli crede nessuno. E forse non ci crede nemmeno lui.
Perché facciamo le pulci a questo disco?
Perché in una recita teatrale, o nella registrazione di un ruolo intero, si coglie il risultato nell’insieme, in un recital invece dobbiamo andare ai particolari.
Siccome è un lavoro antipatico che a noi non piace, rimaniamo alle questioni generali: questo disco dimostra che un declamatore può cantare il repertorio popolare italiano, ma che il repertorio popolare italiano non è affatto necessario a definire la grandezza di un declamatore. Dobbiamo inoltre rilevare che un declamatore perde totalmente il senso dell’umorismo quando affronta i ruoli veristi nazional-popolari italiani; e perdere il senso dell’umorismo è sempre un peccato mortale che non perdoniamo a nessun cantante, nemmeno ai nostri beniamini. Lo abbiamo detto recensendo “Sehnsucht”, lo ribadiamo anche adesso: Kaufmann NON è un tenore buono per tutti gli usi. Abbiamo il timore che Kaufmann, male consigliato, possa perdere le peculiarità che ne hanno fatto il cantante più importante dei nostri anni. La nostra paura è alimentata dalla comparsa dei sanglots, dall’intubazione della voce in cerca di un maggiore affondo per risultare più tenebroso e dalla perdita di quella fantasia interpretativa che lo ha portato a reinventare alcuni dei ruoli che ha affrontato: penso al già citato Lohengrin e, ovviamente, anche a Werther.
Non è troppo tardi per dare una sterzata, ovviamente: Kaufmann è un bene inestimabile per noi appassionati, lo vogliamo con noi ancora a lungo, vogliamo che continui a reinventare i ruoli in cui lo amiamo e vogliamo, soprattutto, che eviti accuratamente le tentazioni di “alvarizzarsi”: di tenori posteggiatori ce n’è fin troppi, no?