Il piccolo Marat
Aggiunto il 14 Dicembre, 2015
Anche Mascagni ha fatto il suo “Andrea Chènier”, pur se 25 anni dopo: è quest’operaccia di basso profilo e totalmente mancante di ispirazione melodica. C’è un protagonista aristocratico in incognito, sotto le mentite spoglie di un rivoluzionario dal cuore di pastafrolla; una mamma da salvare; un sadico bastardo, ma rivoluzionario; una nipote innocente che si innamora dell’eroe; e un lieto fine che mette d’accordo tutti e che ricompensa almeno parzialmente per la lagna orrenda che gli spettatori si sono dovuti sopportare.
Prima di questo soggetto, Mascagni aveva rifiutato una “Maria Antonietta” propostagli da Illica e una “Carlotta Corday” di Targioni-Tozzetti e Menasci.
“Il piccolo Marat”, scritta con Giovacchino Forzano (il grosso del libretto) e Giovanni Targioni-Tozzetti (poche frasi virgolettate), esordì nel 1921 al Costanzi di Roma; fu, a quanto sembra dalle cronache dell’epoca, un notevole successo che lasciava presagire di poter rinverdire i fasti di “Cavalleria”. Protagonisti erano Gilda Dalla Rizza (Mariella), Hipolito Lazaro (il piccolo Marat); L’Orco era Luigi Ferroni, mentre il Carpentiere era Benvenuto Franci. Nello stesso 1921, a Buenos Aires e sempre con la Dalla Rizza, vi si cimentò anche Beniamino Gigli, mentre in tempi più recenti uno dei più assidui (si fa per dire) frequentatori del ruolo è stato Nicola Martinucci.
L’opera è stata la terz’ultima di Mascagni; e siamo lontani le mille miglia dall’ispirazione brada ma purissima di “Cavalleria rusticana”. Qui non siamo nemmeno più dalle parti del Verismo, di cui Mascagni è sempre stato considerato uno dei simboli, ma in un altro ambito che non definirei nemmeno “Futurismo”, come suggerito da Elvio Giudici che ipotizza collegamenti con Marinetti e Govoni. Ma, se devo dire, tanto per rimanere all’amico Elvio, avrei qualche perplessità nel collocarla anche in ambito di Espressionismo.
Non lo è in senso cinematografico, secondo me: “Il gabinetto del dottor Caligari” di Wiene (1920), manifesto di questo movimento, è lontanissimo con le sue distorsioni da questo polpettone operistico che, mi sembra, tende soprattutto al lieto fine telefonatissimo.
E non lo è nemmeno in senso musicale, se partiamo dal presupposto che capisaldi ne furono ragionevolmente “Pierrot Lunaire” e “Erwartüng”; mentre Mascagni cerca costantemente una quadra melodica anche se arcua la frase in una tensione spasmodica all’acuto (e in ciò, probabilmente, l’idea di espressionismo troverebbe una sua collocazione) che, però, è atteggiamento che aveva caratterizzato (con ben altri risultati) anche la tarda produzione di Puccini.
In realtà, si ha sempre la sensazione della ricerca di una linea melodica.
E la riprova di questo atteggiamento di Mascagni è il cuore pulsante dell’opera, vale a dire il lungo duetto tenore-soprano del secondo atto “Sei tu? Che cosa vieni a fare? ... Va nella tua stanzetta” che sembra una riedizione di quello sempre del secondo atto della “Fanciulla del west”, condito di echi wagneriani – anzi, peggio: straussiani, ma della “Frau ohne Schatten” che sembrano appiccicati lì, quasi a nobilitare una materia volutamente povera.
Questo duetto, che riecheggia – con molta meno ispirazione – i pianti della giordaniana “Fedora” e lo spasimo lancinante di “Fanciulla”, è di fatto la negazione di qualunque tensione alla novità: è solo una tiepida zuppetta con lieto fine annesso, che non ha nulla di inquietante ed è anche bruttarella anzichenò.
Quest’opera ha conosciuto riemersioni carsiche nel corso degli anni. Se non vado errato, una delle ultime italiane, se non l’ultima in assoluto, è stata qualche anno fa (credo nel 2006) nell’ambito del ciclo di rappresentazioni del Progetto Mascagni volute dal Teatro Goldoni di Livorno, città natale del compositore. Iniziativa interessante ma che, come tutte le proposte di questo genere, necessiterebbe di interpreti di alto livello, musicale e registico, per poter spremere dalla partitura il poco che ha da dare.
In questa registrazione, oggettivamente, non c’è il miracolo ma qualche cosa di buono che aiuta a farsi un’idea completa.
Virginia Zeani, per esempio.
Romena, née Virginia Zehan nel 1925 (e ancora vivente), aveva quindi 37 anni all’epoca di queste recite. Artista di notevolissima caratura e personalità: nel 1957, per esempio, era stata la prima Blanche de la Force, in italiano, nella prima mondiale assoluta alla Scala dei “Dialoghi delle Carmelitane” di Poulenc); nonostante qualche limitazione del registro acuto, e una certa polposità “eccessiva” del registro centrale, la sua Mariella vibra di un’intensità che nobilita le pagine che le sono affidate. È lei il meglio di questi dischi.
Il di lei marito nella vita, Nicola Rossi Lemeni, era più vecchio di 5 anni e di vocalità assai più delicata. Tuttavia, analogamente a lei, la personalità è debordante e rende giustizia a una parte come quella dell’Orco che, altrimenti, non avrebbe molto per farsi notare al di là delle stigmate da cattivo di maniera.
Il title-rôle è coperto da Giuseppe Gismondo, tenore cui Beniamino Gigli preconizzò una brillante carriera. Nato in provincia di Messina nel 1930, morto a Lecce nel 1998, studiò a Roma e esordì nella Gioconda a Spoleto. Cantò un po’ dappertutto in Europa ruoli come Pinkerton, Cavaradossi, Rodolfo, Calaf e altro… “veristame” del genere. Voce robusta, facile involo all’acuto, ottima dizione, zero finezze (ma il ruolo non le richiede in modo precipuo): il suo Piccolo Marat sta tutto in questa sintesi. Anche punta tutto in direzione delle poche oasi più scopertamente liriche, oppure in quelle che – pur non essendo tali – possono evocarne il ricordo; e mi riferisco ovviamente al già citato grande duetto che, volontariamente o no, finisce per seppellire qualunque sospetto di Espressionismo: questo è Mascagni; meno ispirato, ma pur sempre Mascagni.
Fra gli impegnati comprimari, tutti di livello complessivamente alto, segnaliamo in particolare il Soldato di Giulio Fioravanti e il Carpentiere di un Afro Poli invecchiato, e quindi di voce non più perfettamente centrata, ma pur sempre di notevole carisma.
Dirige molto bene, probabilmente nel modo migliore possibile nei limiti offerti dalla partitura, il bravo Ottavio Ziino, uno che la materia la conosce e la gestisce con buon senso, senza cercare di ricavarne chissà quali messaggi.
L’orchestra non è granché, onestamente; ma non è nemmeno pessima e suona in modo più che accettabile
Pietro Bagnoli