Trovatore
Aggiunto il 19 Ottobre, 2014
Il fascicolo della recente rimasterizzazione Warner a partire dai nastri conservati agli Abbey Road Studios, nell’ambito della meritoria integrale delle incisioni in studio della grandissima cantante greca, fa riferimento al fatto che Maria abbia interpretato sulla scena questo ruolo per una ventina di volte. Poche, se si considera l’estrema affinità della cantante non solo per il milieu post-belcantistico in cui questo personaggio affonda le proprie radici, ma anche per la dolce nevrosi di cui Leonora è intrisa. Con questa incisione finiva il proprio confronto con il personaggio; ma finiva alla grande, in comunione con uno dei direttori che maggiormente avevano segnato la sua formazione, e cioè Karajan, con il quale collaborava per l’ultima volta.
“Per la prima volta abbiamo sentito i trilli eseguiti correttamente, scale e arpeggi dalla sonorità piena ma al contempo snelli, che presentavano un’agilità ritmica. I portamenti e le frasi dall’ampio respiro erano pienamente sostenuti, le agilità erano squisite”: così Cecil Smith, nelle pagine di “Opera”.
Aveva ragione, ovviamente.
Se guardiamo a ritroso nella discografia ufficiale in lingua italiana troviamo cantanti come Bianca Scacciati, Maria Carena e Caterina Mancini che con agilità, ornamentazioni e trilli non avevano nulla a che spartire. Con la Milanov le cose cominciavano a migliorare, ma il mondo post-belcantistico le era oggettivamente estraneo. E non parliamo di Renata Tebaldi, sicuramente adeguata per caratteristiche timbriche e per allure, ma non per aplomb stilistico.
La Callas invece si muove pariteticamente su due fronti.
Da un lato, così come aveva fatto per altri personaggi, recupera completamente la cifra stilistica. Per la prima volta – come diceva Smith – sentiamo i trilli di “D’amor sull’ali rosee” e il salto di decima per raggiungere il re bemolle della cadenza. Non si tratta di mere bellurie tecniche: è il giusto ricollocamento di un personaggio nell’ambito stilistico che gli compete, la stessa procedura che aveva adottato per altri personaggi prima impropriamente veristizzati come, per esempio, Norma. Ma non solo: anche le discese nel grave non provocano le sguaiataggini di altre cantanti, e proprio perché la linea di canto è assolutamente adamantina.
D’altra parte, questa giustezza nell’espressione comporta anche l’utilizzo di un linguaggio adeguato, la capacità di far risuonare correttamente non solo le parole, ma anche le singole lettere. L’attacco di “Tacea la notte placida” non avrà la liquidità che vi sapeva infondere la Tebaldi, ma il rispetto maniacale delle singole acciaccature e di tutti i segni di espressione previsti in partitura riesce a rendere alla perfezione l’ansia febbrile dell’attesa.
Eccezionale poi è il ritmo anapestico – perfettamente sostenuto da Karajan – di “E deggio e posso crederlo” in cui l’ansia comincia ad assumere i connotati dell’alienazione.
E virtualmente perfetta tutta la grande scena del Notturno del Quarto Atto, il cui non c’è solo l’arioso, che comunque ha una bellezza profonda e misteriosa; il “Miserere”, infatti, riceve finalmente un rilievo adeguato non solo teatralmente, ma anche vocalmente, grazie anche all’uso diabolico delle “r” che ronzano e risuonano con una musicalità che prima nessuno aveva mai percepito.
Prova stratosferica, quindi; e già di per se stessa sufficiente a fare di questa incisione un paradigma interpretativo, nonostante i problemi legati a un cast vocale che – nei suoi restanti componenti – è di alto livello solo alla voce “baritono”.
Panerai è infatti bravissimo. All’epoca della registrazione aveva 32 anni e quindi riusciva perfettamente a essere credibile nei panni di un giovane uomo quale deve essere il Conte di Luna, fratello di Manrico. Oltre a ciò, ha il senso preciso di quello che dice: si faccia caso, per esempio, al duetto del Quarto Atto in cui riesce a tener botta alla Callas grazie a un eloquio ritenuto, quasi sgomento di fronte alla prospettiva di coronare un sogno di possesso. Anche il “Balen” (e successiva cabaletta) è cantato benissimo.
Terribile è il trentacinquenne Di Stefano che nel 1956 già proprio non si poteva più ascoltare, e questo nonostante un timbro vocale che – analogamente a quello di Bjoerling – sarebbe stato perfetto per il personaggio. Ma l’inadeguatezza è direttamente proporzionale alle urla emesse per raggiungere l’obbiettivo del galleggiamento a vista.
Il “Mal reggendo” è pessimo, concluso da un urlaccio inascoltabile.
L’ “Ah sì ben mio” – di solito vetrina per tenori crooner e con il dominio delle smorzature – è poco meno di uno stornello.
La Pira manca di arroganza, di squillo, e si conclude con un si bemolle stiracchiato di cui, peraltro, non si sentiva la necessità.
Ma – do o si bemolle a parte – è tutta la tessitura alta quando non altissima di Manrico a mettere terribilmente alla frusta il povero Pippo in una delle sue prove discografiche meno riuscite. A causa delle enormi difficoltà, la cifra stilistica del proprio personaggio è completamente fraintesa, il che genera uno iato incolmabile con il capolavoro che invece riesce a creare la Callas con ogni singola frase.
Mi è francamente insopportabile anche la Barbieri, anch’ella non ancora quarantenne. Spiana tutti i trilli della “Vampa” e si prende un sacco di altre libertà nel corso della narrazione, crea un personaggio estremamente convenzionale (molto Baba Yaga), ma lo fa con autorità per cui, alla fine, riesce a imporsi.
Zaccaria fa il suo con solido mestiere così come i comprimari. Coro stratosferico.
Dirige il tutto un Karajan ancora al di qua della Grande Riforma del Suono. Il suo è un “Trovatore” splendidamente diretto, ma come avrebbe potuto farlo anche un Serafin o un Gavazzeni
Pietro Bagnoli