Manon Lescaut
Aggiunto il 03 Luglio, 2010
Ricordo bene la temperie emotiva in cui uscì questo disco. Si era nel 1984 e fu annunciato inizialmente Carreras come protagonista maschile, mentre invece già si sapeva che Mirella Freni avrebbe dato voce alle angosce esistenziali dell’adolescente immaginata da Prévost. Poi, quando uscirono i dischi, ci fu per gli appassionati che ancora non potevano usufruire del tambur battente di internet che oggi anticipa qualunque cosa, la sorpresa di leggere il nome di Domingo e conseguentemente lo spostamento dell’asse interpretativo su un orizzonte più brado, più passionale. Mi rendo conto che si tratta di parole che fanno sorridere, specie oggi che molta acqua è passata sotto i ponti, ma questa è una di quelle registrazioni-perno, quelle di cui ci ostineremmo a negare l’esistenza se non fosse che le abbiamo, le ascoltiamo e insomma ci abbiamo costruito alcune delle poche certezze che abbiamo in ambito esecutivo.
La simbiosi di Domingo con Des Grieux era ormai paradigmatica: lo era già da prima, ed era maturata non solo in sala di registrazione (con Bartoletti), ma anche sul palcoscenico. Lo ricordo nel 1978 alla Scala di Milano con la brava e sensibile Sylvia Sass, diretti da Georges Pretre; o al Met, nel 1980, con la Scotto e Levine; o ancora nel 1983 a Londra, nello spettacolo che ha fatto da base a questa registrazione, sempre con Sinopoli ma con protagonista femminile profondamente diversa per voce ed intenzioni rispetto a quella poi scelta per la sala di registrazione (Kiri Te Kanawa).
Perché parliamo preliminarmente di Domingo? Perché è la dimostrazione di come sia stata intelligente ed estremamente scaltra la manovra di Sinopoli che, apprestandosi a cambiare la storia esecutiva di “Manon Lescaut”, si è attrezzato partendo da alcune certezze che rendessero più accettabile il lavoro profondissimo eseguito dal direttore su una materia già di per se stessa incandescente perché, benché acerba, contiene il meglio dell’ispirazione pucciniana. E quale certezza migliore poteva esserci del tenore che, più di ogni altro in quegli anni e non solo, aveva portato in giro per il mondo i dolori e i patimenti di un personaggio vissuto all’insegna dell’estroversione più protoromantica che si possa desiderare? In questo modo il pubblico aveva già qualcosa di solido cui attaccarsi, e poteva accettare meglio le novità che venivano poposte.
La novità più rilevante, l’unica – per il vero – che regge ancora oggi alla prova del tempo, è la direzione di Sinopoli che riesce a penetrare con freddezza e determinazione nell’universo pucciniano, riuscendo a cogliere come nessun altro le distorsioni e le nevrosi dell’ipersensibilità del compositore lucchese.
In questo primo grande approccio in sala di registrazione compaiono già le grandi tematiche che verranno poi sviluppate, in modo ancora più pregnante, nelle incisioni di “Butterfly” (questa davvero fondamentale) e di “Tosca”.
In primis, quindi, lo sviluppo maniacale dei personaggi femminili, colti nell’esplosione della loro gioventù, con lo iato inestinguibile fra una femminilità nervosa ed aggressiva e una dolcezza estenuante. Ora, la scelta di una protagonista intelligente ma, a quel punto, già agèe come Mirella Freni, pone una pesante ipoteca sul versante “gioventù” anche se il coté della dolcezza languida ed estenuata viene rispettato. Ma qui è necessario aprire una parentesi.
Nella realizzazione della galleria dei personaggi pucciniani che Sinopoli porta in sala di registrazione (solo tre, alla fine: Manon, Butterfly e Tosca), la presenza di Mirella Freni è un aspetto che ancora oggi, a ripensarci a tanti anni di distanza, mi suscita più di una perplessità. Non si discute ovviamente il magistero tecnico immenso della suprema vocalista che Mirella fu.
Non si discute nemmeno l’afflato con cui questi personaggi sbocciano come i fiori dalle dita di Mimì, grazie ad una vocalità rigogliosa che si pone essa stessa come aspetto interpretativo di primissimo ordine.
No, quello che discuto – timidamente e con affetto – è che letture orchestrali così violente, anticonvenzionali, profondamente intrise di sonorità mitteleuropee (di cui pure notoriamente Puccini si era nutrito) e ricche di rimandi wagneriani, si giovino di una vocalità così profondamente italiana come quella di Mirella nostra. In una certa qual maniera le charme opère: la Freni è interprete smaliziata, riduce al minimo indispensabile i languori che dovrebbero evocare il fiore della gioventù, fa leva piuttosto sui trucchi di un mestiere a quel punto saldissimo che le permette di pigiare maggiormente sul pedale di una sensualità a fior di pelle, della sana ragazza di campagna piuttosto che della sofisticata fanciulla di città. Appropriato? Fuori luogo? Mah, di sicuro efficace, quanto meno in Manon: sappiamo benissimo quanto sia difficile trovare la quadratura del cerchio in un ruolo così complesso e variegato, ma soprattutto dominato da quell’idea di gioventù inesausta che dovrebbe esserne l’ubi consistam. Come per Butterfly, è sostanzialmente impossibile trovare una cantante che sappia abbinare le due esigenze: gioventù e risoluzione delle difficoltà vocali del ruolo, decisamente precluso ad una giovinetta. In mancanza di meglio, ben venga una Mirella col suo pragmatismo, il suo buon senso, il suo rigoglio vocale, la sua sana e gustosissima carnalità campagnola.
Ma non con questa orchestrazione, santa pace!
Questa orchestrazione, che sembrerebbe adatta ad un Lohengrin (si pensi a come risuonano i fiati nel finale del duetto dell’atto secondo), richiama ed esige un’interprete che si interponga alla trama orchestrale con un declamato di alta scuola, facendo sentire le lacerazioni emotive del suo personaggio. In mancanza di meglio, però, c’è da dire che la Freni fa davvero bene tutto quello che fa. Certo, qualche scivolata nel parlato gutturale allorquando la temperatura espressiva si arroventa è proprio inevitabile per un’organizzazione intrinsecamente delicata e vocalistica come la sua. Ma alcuni momenti sono indimenticabili: “In quelle trine morbide” è cesellato benissimo; la grande scena del porto di Le Havre è condotta al calor bianco (grazie anche all’orchestrazione veemente di Sinopoli e al fraseggio impetuoso di Domingo); tutto il quarto atto è splendido con una scena della morte veramente commovente in cui la Freni, al passaggio di “Mio dolce amor tu piangi. Non di pianto, ora di baci è questa” riesce a portare l’ascoltatore ad un tale parossismo emotivo da scatenare il pianto: e non è un’esagerazione, siamo ai vertici assoluti delle seduzioni di Madama Mirella.
Ciò che manca è, ovviamente, quel particolare tipo di sensualità richiesto da Sinopoli. I colori sinuosi e liberty di Sinopoli esigerebbero la fanciulla in fiore, che la Freni non è mai stata nemmeno in gioventù, e che quindi non può essere a quel punto della sua carriera; per cui, nel grande duetto d’amore del secondo atto, non c’è la cortigiana fragile ma sexy, bensì una bella signora nel pieno della sua sensualità adulta che fa un capolavoro di seduzione morbida e carnale. A me non dispiace affatto, anzi l’adoro: ma non è Manon! Ma, a prescindere, è ancora oggi la Manon e, allo stesso tempo, l’interpretazione freniana che ascolto di più.
La seconda tematica, ovviamente, è proprio l’orchestra.
Sono stati spesi fiumi d’inchiostro sull’appropriatezza di una concertazione del genere nelle mani di un direttore così fortemente caratterizzato, ed io non intendo portare il peso delle mie ovvietà, ma una cosa va comunque detta: questa è una direzione talmente ricca di colori da stordire l’ascoltatore che non abbia familiarità con lo Strauss di “Salome” o di “Daphne”. Il trattamento dei fiati e dei legni è di assoluta preminenza, a sottolineare ora la tragica ironia della vicenda di una donnina leggera, ora la sensualità che si snoda come una spira. Ma lo schianto emotivo dei momenti più appassionati è da brivido: si pensi alla già citata scena dell’appello delle prostitute, mai sentita così piena di dolore represso, di rimpianto per una felicità accarezzata e subito perduta e persino di rimprovero che, dal Cielo, sembra cadere sugli uomini che condannano l’amore nelle sue forme più belle.
La narrazione, sin dall’inizio, corre spedita come una corsa verso la morte, anche se non senza accenti brillanti, ironici, sapidissimi: come la brillante e breve ouverture che schizza come una trottola impazzita, per esempio, oppure la scena della lezione di ballo (ove, per inciso, il Maestro di danze è atroce) che si conclude con un “L’ora o Tirsi è vaga e bella” in cui la voce della Freni deve fare le lotte con l’orchestrazione violenta ed ironica di Sinopoli, qui davvero scatenatissimo.
Ma quello che lascia maggiormente stupefatti, ancora a distanza di tutti questi anni, è l’uso dei colori orchestrali, che vengono miscelati con una fantasia addirittura klimtiana che denuncia lo straussiano di rango; e non a caso, di lì a qualche anno Sinopoli produrrà per la DGG la più sfaccettata, colorata ed iridescente incisione di “Salome” che sia mai stata fatta, sicuramente il suo esito più alto in questo repertorio. Da notare: la tinta serale del primo duetto con Manon; le pennellate canoviane del boudoir di Manon; i colori foschi di Le Havre e il bianco accecante del quarto atto.
Anche il baritono è diverso rispetto che a teatro: là era il sulfureo e spigliatissimo Thomas Allen, il prototipo di tutti i baritoni coloristi di area anglosassone, in disco è Bruson, vocalista di vecchia e sana scuola italiana, che cesella e minia la sua parte come se fosse Riccardo Forth e non il cialtronissimo e ruffiano fratello di Manon. Ne deriva una strana lettura neovocalistica, che col verismo prima maniera di Manon c’entra come il proverbiale cavolo a merenda, per il vero piuttosto impropria e un po’ sopra le righe, ma non priva di una certa simpatia a pelle, grazie alla bravura del baritono veneto.
Le parti di fianco sono caratterizzate dalla presenza di cantanti abituati a ruoli ben più pesi, e quindi non adatti al comprimariato. Un esempio? Kurt Rydl: fa pena il suo vocione nella parte di Geronte, per la quale ha la profondità dei gravi ma non l’arguzia da figlio di buona donna che dovrebbe renderlo simpatico nonostante tutto. La Fassbaender, come musico, si crede Octavian o Brangäne. E così via