Domenica, 01 Settembre 2024

Elektra

Aggiunto il 31 Maggio, 2014


Richard STRAUSS
ELEKTRA, op. 58

• Elektra ASTRID VARNAY
• Chrysothemis ELISABETH HÖNGEN
• Klytämnestra WALBURGA WEGNER
• Orest PAUL SCHÖFFLER
• Aegisth SET SVANHOLM
• Der Pfleger des Orest ALOIS PERNESTORFER
• Die Vertraute JEAN MADEIRA
• Die Schleppträgerin PAULA LENCHNER
• Ein junger Diener PAUL FRANKE
• Ein alter Diener LUBOMIR VICHEGONOV
• Die Aufseherin THELMA VOTIPKA
• 1° Magd MARTHA LIPTON
• 2° Magd HERTHA GLATZ
• 3° Magd LUCINE AMARA
• 4° Magd MILDRED MILLER
• 5° Magd GENEVIEVE WARNER

Chor of The Metropolitan Opera
Chorus Master: non indicato

Orchestra of The Metropolitan Opera New York
FRITZ REINER

Luogo e data di registrazione: New York, 1952
Ed. discografica: Archipel (e altre), 2 CD economici

Note tecniche sulla registrazione: godibilissima

Pregi: Varnay e Reiner in simbiosi perfetta

Difetti: nessuno

Valutazione finale: images/giudizi/eccezionale.png

Frederick Martin “Fritz” Reiner, nato a Budapest nel 1888, dopo gli iniziali studi di Giurisprudenza si è dedicato al pianoforte (con insegnante Béla Bartók) e alla composizione. Ha lavorato a stretto contatto di Richard Strauss di cui diresse – nel 1919 – la prima rappresentazione a Dresda di “Frau ohne Schatten”. Nel 1922 si trasferisce negli Stati Uniti ove si fa naturalizzare; a Philadelphia insegna musica e ha, fra i suoi allievi, Lenny Bernstein. Nel 1949 debutta al Met con “Salome” (con Ljuba Welitsch) ove, sino al 1953, dirigerà circa 156 rappresentazioni. Dopo di ciò, diventerà direttore della Chicago Symphony Orchestra per un glorioso decennio (Stravinsky definì la CSO sotto le cure di Reiner "the most precise and flexible orchestra in the world")
Della sua tecnica direttoriale sono state dette tante cose; fra queste – curiosamente – il fatto che l’area disegnata dal battito della sua bacchetta sarebbe potuta essere quella di un francobollo. I suoi modi erano autocratici e dispotici alla maniera di Toscanini; ma, non diversamente dal direttore parmense, il suono che otteneva dall’orchestra era di una chiarezza espositiva, di un nitore e di una bellezza formale quasi senza rivali.
Si consideri – per esempio – il suono orchestrale di questa “Elektra”: chi conosce il sound del Met di quel periodo rimarrà a bocca aperta, sentendo la ricchezza, il calore, la precisione analitica di tutti gli attacchi, la perfezione formale degli incisi, persino la scoperta di alcuni dettagli che non credo siano riscontrabili in altre incisioni forse più blasonate e registrate in studio.
Tensione sfrenata ma ritmi molto thrilling, con una tensione montante più da Hitchcock che da Raimi prima maniera o Romero; poca o nulla concessione allo splatter che spesso gronda dalle interpretazioni di questo meraviglioso capolavoro. E intesa pressoché perfetta con tutti gli interpreti ma, in particolare, con la protagonista.
Classe 1918, quindi trentaquattrenne e nel pieno delle sue enormi potenzialità, la Varnay era già una beniamina del Met ove – come noto – aveva debuttato 11 anni prima in Walküre sostituendo prima senza prove Lotte Lehmann come Sieglinde e, sei giorni dopo, Helen Traubel come Brunnhilde. Tra l’altro, aveva già debuttato nel Ring a Bayreuth un anno prima con Knappertsbusch (inviata a Wolfgang Wagner dalla Flagstad). Quindi, questa è una Elektra molto wagneriana, ammesso che questo aggettivo abbia un senso per un’Artista così fuori dagli schemi dell’epoca come lei. Sempre a New York ma alla Carnegie Hall, tre anni prima, la Varnay aveva debuttato Elektra in forma di concerto con Mitropoulos; qui, invece, c’è un altro (ottimo) debutto, quello di Walburga Wener come Chrysothemis.
Sul palcoscenico che aveva già visto la mesmerizzante presenza di Rose Pauly nel 1939, la Varnay raggiunge la consacrazione nella parte, grazie a un’immedesimazione assolutamente inquietante e che riprendeva la violenza esecutiva della già citata Pauly, solo integrata da un sound ricco di pathos e di una patina di ironia beffarda. Dura, scabra, intransigente, chiusa in un cupo dolore che non ammette riscatto né consolazione, Elektra vive solo per la vendetta in un momento ancora al di qua di tutte le implicazioni psicotiche e alienanti che caratterizzeranno gran parte delle interpretazioni degli anni a venire; quelle, insomma, prima della “terza strada”, rappresentata dalla Herlitzius dei nostri tempi.
Niente di più lontano da studi freudiani sull’isteria o sulla sessualità ammalata, in questa lettura della Varnay che si trasforma nella Grande Icona della Vendetta come unica ragione di vita; e lo fa con la voce di Brunnhilde che appicca il fuoco alla pira di Siegfried.
È appropriata questa visione? Oggi sappiamo di no (lei stessa ne attenuerà significativamente la portata dodici anni più tardi a Salisburgo con Karajan), ma all’epoca era forse l’unica strada possibile, se consideriamo che la Borkh inizialmente non se ne discosta moltissimo; e, di questa strada esecutiva, all’epoca era – dopo la già citata Pauly – l’interprete più attendibile e completa.
Da un punto di vista vocale, all’epoca la Varnay era onnipotente, per quanto lo si possa essere in una parte come questa che massacra chiunque. Il monologo iniziale viene vissuto in leggera apnea, forse un po’ al risparmio; e nel primo duetto con Chrysothemis è forse un filo troppo sprezzante. Ma dove veramente comincia a volare alto, è il duetto con Klythaemnestra, una straordinaria Höngen che ribatte misura per misura alla furia scatenata della figlia.
La quale Höngen, più vecchia della Varnay di 12 anni, aveva esordito nel 1933 e aveva, all’epoca di queste recite, 46 anni; l’anno prima, nel 1951, aveva debuttato nel Ring come Fricka e Waltraute. Nella ricca discografia di questo immenso capolavoro, la sua Klythaemnestra si staglia per essere forse il primo esempio di qualcosa di diverso dalla solita megera pazza e sanguinaria. Oggi è una strada seguita da molte interpreti (si pensi a Waltraud Meier, e non solo nel recente allestimento di Chèreau), ma all’epoca era una specie di azzardo, tanto più di fronte alla visione iper-tradizionale di Varnay. E tuttavia, si rimane colpiti di fronte all’eloquio tagliente, ironico, sagace e quasi affettuoso di questa Klythaemnestra che, per una volta, chiude la porta alle tentazioni di rispondere avvitandosi al grand guignol. Io la trovo semplicemente affascinante in tutto il colloquio in cui riesce non solo a non farsi mettere i piedi in testa da Elektra, ma anche rispondere in modo estremamente cerebrale. Il canto, poi, come sempre in questa grande Artista, è sorvegliatissimo.
Completa il terzetto femminile Walburga Wegner che – come dicevo – debuttava qui la propria parte; come spesso capita, delle tre donne, Chrisothemis è la meno caratterizzata, schiacciata com’è fra due personaggi così violentemente sbalzati (e in quegli anni, poi!). Purtuttavia canta molto bene e con discreta, pur se non soverchiante, personalità.
I due uomini sono schiacciati e istigati dalle due primedonne; ma hanno comunque modo di farsi notare.
Schöffler era il più importante Hans Sachs del suo tempo; il suo pragmatismo e buon senso teoricamente l’avrebbero tenuto lontano da un ruolo così allucinato ma comunque gli riesce benissimo: la scena dell’agnizione fra lui e Elektra è mantenuta sul filo di eloquio agghiacciato che, ancora oggi, comunica più di un brivido.
Set Svanholm presta la propria voce da heldentenor a un ruolo normalmente attribuito a caratteristi cachinnanti al limite del ridicolo; e il risultato, col suo dar voce alle paure di un uomo sopraffatto, è entusiasmante.

Packaging – quello di Archipel – estremamente scarno; oltre ai tracks vengono riportati solo gli interpreti principali, e non quelli secondari che nelle opere di Strauss hanno un’economia importantissima.
Completa il box una selezione da un concerto della Varnay del 1951, diretto da Hermann Weigert. I brani sono interessanti ma non molto di più, a eccezione di “In quelle trine morbide”: in un ruolo come Manon Lescaut la voce enorme di Astrid si piega in inflessioni difficili. Siamo d’accordo, è una Manon che rimanda più a Gene Tierney e Susan Hayward, quindi terribilmente femmina matura invece che ninfetta; ma d’altra parte la Varnay era l’ultima che avrebbe potuto far risuonare l’ingenua e maliziosa sensualità di una quindicenne…
Pietro Bagnoli

 

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