Tosca
Aggiunto il 23 Aprile, 2014
Veniamo a quello che costituisce il motivo di vera curiosità dell’intero cofanetto: questa Tosca cantata in una lingua musicalissima quale è il russo e dal vivo (si sentono i rumori di scena). Volendo riproporre l’eterna questione della traduzione di opere o di esecuzione negli originali c’è da togliersi tanto di cappello davanti a registrazioni come questa: di ottima resa audio, di un comportamento civilissimo del pubblico (anche nell’ovazione all’ingresso della loro Galina nazionale e al successivo applauso quando l’artista esce di scena dopo l’incontro con Mario), di eliminazione pressoché totale di caccole e malvezzi che affliggono la parte del Sacrestano (Nartov è molto bravo), passate per buone grazie a Corena, Capecchi e altra gente del genere, mentre a contrasto di tali brutture l’esecuzione offre qua e là spunti originali da parte dei tre cantanti principali e sottolineature orchestrali inedite. Basterebbe questo per porre questa esecuzione nei posti più alti della discografia di quest’opera e ciò anche perché la lingua russa permette a questi artisti di manifestare pienamente il nocciolo delle loro intenzioni interpretative e di favorire la loro fantasia.
Ermler dirige molto bene, è attentissimo al dettaglio, non degenera mai nel frastuono esteriore ed emerge per un’ariosità ed una cantabilità dei vari passaggi a sfondo liricheggiante ed amoroso: suggestivo ad esempio l’accompagnamento a «Non la sospiri la nostra casetta» reso dalla Vishnevskaya con grande abbandono e con una voce che risponde bene anche alle sollecitazioni verso l’acuto. Ma tutta l’esecuzione di questo duetto resta un capitolo felice della discografia di Tosca: la Vishnevskaya è varia e Noreika risponde con voce fresca senza la benché minima forzatura, tale da mandare in cantina Di Stefano e Raimondi. Del resto, Noreika ci aveva già offerto ad apertura d’opera un «Recondita armonia» davvero piacevole e correttissimo.
Singolare poi appare l’atmosfera escogitata da Ermler nell’ingresso di Scarpia e nella sua successiva meditazione: atmosfera vitrea e ricca di sospensione perfettamente consona al momento. Lo Scarpia di Valaitis è veramente notevole, civile e composto gran signore, anche se di volume non magniloquente e dovizioso. Il successivo duetto Scarpia-Tosca è preparato da tinte sonore felpate e sinistre e qui Valaitis si mantiene sommessamente colloquiale, ma già venato da inquietante morbosità. Inoltre Ermler qui valorizza molto i silenzi e le pause per cui la frase «La corona… Lo stemma» (riferiti al ventaglio) assume un sapore che si sente raramente. Ugualmente la successiva ed amara riflessione di Tosca non è declamata, ma quasi sussurrata da parte della Vishnevskaya che canta tutto persino il famoso «Giuro!» riferito al quadro dell’Attavanti.
Te Deum: introdotti da bronzi spettrali sui quali si adagia la voce di Valaitis nell’ordine «Tre sbirri una carrozza» detto però in pianissimo senza strafare. Il brano prosegue con una dinamica lenta ma non trascinata che chiaramente acquista una solennità più ortodossa che latina (il richiamo al Prologo di Boris è inevitabile…) però è straordinaria perché tutto è calibrato: Ermler non soffoca in sonorità Valaitis che ha perciò modo di emergere, pur senza avere una voce lussureggiante in volume. Tuttavia questo baritono non sbaglia un colpo e nelle ultime frasi latine è veramente bravo!
Insomma un bel gioco di squadra.
Il II atto è ben introdotto da Ermler fuori da ogni scadimento nell’enfasi: in punta di piedi il motivo della gavotta che proviene dalla finestra. Molto bello l’assolo di Scarpia sulla sua ‘particolare concezione’ dell’amore, non sbraitato nelle frasi più impervie, ma cantato. Bravo il tenore Sokolov nel racconto di Spoletta e fredda nella sua reazione l’esplosione di rabbia di Scarpia che inizia a giganteggiare nel successivo interrogatorio a Cavaradossi. Notevole poi la sottolineatura che l’orchestra offre dei preparativi della tortura. Nel successivo martellamento psicologico di Scarpia verso Tosca l’orchestra è in secondo piano per dar modo ai due cantanti di emergere, ma non per questo si assenta. La Vishnevskaya e Valaitis fanno bene, ma in certi momenti il soprano non si astiene da scantonamenti nel parlato.
L’«Orsù, Tosca parlate» con quel che segue vede una Vishnevskaya molto pugnace fronteggiata da Valaitis che attinge a tutte le sue riserve specialmente nel fraseggio, non di suoni fluenti che, abbiamo detto, non possiede. Tuttavia anche qui sentiamo un profondo equilibrio tra cantanti ed orchestra. Tornato malconcio dalla tortura, Noreika offre il suo «Vittoria, vittoria» in modo meno rabbioso (e assolutamente composto) di quanto ci si potrebbe attendere, ma non per questo meno eloquente.
La seconda parte dell’atto II (profferte di Scarpia, «Vissi d’arte» e morte del cattivo di turno) è svolta molto bene dall’orchestra, profondamente rispettosa del dettato musicale, ma anche delle caratteristiche dei singoli solisti. La Vishnevskaya canta bene e accenta di conseguenza, ma c’è sempre in lei la tendenza a strafare con singulti che ricordano il verismo di casa nostra. Valaitis, dal canto suo, lavora molto sull’espressione e sulla parola. Il «Vissi d’arte» si imprime nella memoria per fluidità e dolcezza di espressione. Vocalmente è molto luminoso e, a tratti, liederistico. Ad esecuzione ultimata, abbiamo un accenno del pubblico nell’ovazione che segue a vari ‘brava’ che poi si risolvono in un applauso ritmato. Ermler recupera anche le battute solitamente tagliate «Risolvi … Mi vuoi supplice ai tuoi piedi» anche se qui la Vishnevskaya si concede al parlato. Molto insinuante il dialogo Spoletta-Scarpia sulle sorti di Cavaradossi e perciò cantato piano. Segue la successiva stesura del salvacondotto in cui l’orchestra è densissima. Nelle due battute di Tosca («La più breve… Si») la Vishnevskaya è come trasognata e dà l’idea di una donna che agisce macchinalmente senz’anima, adatta al momento. Anch’esso un inciso originale. Rapidissima è concitatissima sul piano orchestrale la scena dell’assassinio di Scarpia: Valaitis è molto bravo, la Vishnevskaya guarda a modelli italiani desueti (leggi verismo) per tutto il resto dell’atto (con singulti e sospiretti). La conclusione è sul piano strumentale molto bella con suoni morbidi e al contempo spettrali.
III atto: l’introduzione, nella prima parte, è accuratissima e ottimo (salvo un attacco un po’ stirato) il pastorello (che, ovviamente, non ha nulla del dialetto del luogo dove si svolge la vicenda). L’immagine che proviene dall’orchestra è quella di una Roma sonnolenta, pesantemente barocca che incide fortemente anche nell’enunciazione del successivo leit-motiv delle ‘stelle’ che è lento e solenne. L’aria del tenore è eseguita da Noreika con rispetto estremo del legato e con altrettanta abilità nei cambi di registro, oltre ad una profonda comprensione della situazione scenica. Non ascoltiamo suoni fluenti (ma nemmeno gli orrori di Di Stefano oppure l’incompletezza di G. Raimondi): tutta una commozione profonda pervade il brano ed è un’altra singolarità di questa versione così lontana linguisticamente (e diciamo anche stilisticamente) dalle nostre orecchie. Segue il duetto dei due amanti, che potremmo chiamare ‘dei progetti di vita futura’, in cui la Vishnevskaya fa la primadonna con suoni a tratti veramente belli (e con qualche risatina di facile entusiasmo), ma Noreika non è da meno per espressività (addirittura entusiastica nel «Parlami ancor» e quel che segue) proponendosi, fra l’altro, con piani e sfumature di un certo effetto alle quali corrispondono facili ascese verso l’alto.
L’orchestra incornicia molto bene il momento così intimo prima della catastrofe finale. Durante l’esecuzione il pubblico applaude in almeno in due punti, ma sempre elegantemente.
Il tempo di valzer che introduce l’ultima scena è triste e spento e questo lascia la Vishnevskaya esprimersi al meglio nelle sue battute in cui alla fucilazione si lascia andare ad un Bravo fuori ordinanza e non certo scritto da Illica e Giacosa. Sottovoce e molto espressive le frasi sul cadavere prima della scoperta della crudele beffa per poi esplodere con la rabbia e il dolore. Nel finale sono recuperate – al contrario di quanto avviene a Buenos Aires – tutte le battute degli altri personaggi. Ottima la chiusa dell’opera.
In sostanza la Vishnevskaya appare molto diversa e sensibilmente migliore rispetto a quanto in studio ci offrirà appena 5 anni dopo per la più illustre casa DGG. Ma ripeto è tutta l’esecuzione ad attirare per un approccio non italiano di un capolavoro che più italiano non si può.
Luca Di Girolamo