French arias di Marcelo Alvarez
Aggiunto il 25 Marzo, 2008
Ci interessa veramente un cantante così?
La domanda sorge spontanea dopo l’ascolto di un recital che prende tutto ciò che c’è di più famoso per voce di tenore nel repertorio francese, con l’aggiunta di un pizzico di spericolata acrobazia dato dal cimento nella grande scena di Arnold.
Certo, il disco è ben confezionato, sin dalla copertina che ci presenta il tenore argentino che seduce l’acquirente con lo sguardo più tenebroso di cui è capace; ma da qui a dire che sia un disco rivelatore, ce ne corre, eccome se ce ne corre.
Per cui si ritorna alla domanda dell’incipit, e cioè se ci interessa veramente un cantante così. La nostra risposta, a scanso di equivoci, è no.
E non per snobismo o per presenza di alternative soverchianti: la realtà tenorile è quella che è, e un buon professionista del grande repertorio lirico farebbe bene, eccome.
Il problema è che Alvarez – soprattutto l’Alvarez degli ultimi tempi – non ci sembra un interessante interprete di questo repertorio.
Con qualche distinguo, comunque.
Il suo Werther, per esempio, non è privo di un certo empito, ma tutto si risolve nella solita passionalità da supermacho latino che non vede nemmeno da lontano l’austera malinconia dell’irraggiungibile Thill o, se è solo per quello, il languore ipersensibile di Kraus, tanto per citare i primi due che vengono in mente a chiunque. Certo – si dirà – sono punti di vista differenti. Ma proprio non si capisce che cosa ci stia a fare una versione così epidermica e a gola spiegata in un parterre royale come quello dei grandi interpreti di questo ruolo.
Quello di Des Grieux è un ruolo affrontato tante volte anche in produzioni importanti, come quella testimoniata da disco con la Fleming, ma anche qui siamo lontani anni luce dall’ideale e sapiente mix di naiveté ed eroismo disperato (ma anche un po’ fanè) che, se vogliamo, lasciando perdere gli augusti modelli madrelingua Belle Epoque, potrebbe essere rappresentato da un Gedda, inarrivabile nell’incisione con la Sills.
Si potrebbe continuare nella disamina brano per brano, e si finirebbe comunque per trovare sempre qualcosa di meglio: il che probabilmente non sarebbe nemmeno giusto, anche perché questo stesso concetto potrebbe essere applicabile a molti altri fra i cantanti odierni.
I problemi di questo cantante, però, se vogliamo, potrebbero essere differenti perché:
- il suo atteggiamento lo porta sovente e in modo non sempre appropriato al centro dell’attenzione. Proprio recentemente mi è capitata sotto il naso una sua intervista ad un giornale argentino ove il nostro fa alcune considerazioni poco gradevoli sia sul pubblico italiano (accusato sostanzialmente di non capire niente), che su alcuni suoi colleghi. E questo, anche da un punto di vista diplomatico, non è carino
- permangono irrisolti alcuni problemi col registro acuto che viene spesso conquistato a colpi di glottide. Questo, in astratto, non è uno scandalo: abbiamo sentito anche di peggio. È chiaro però che – date le premesse – ci si sente anche un po’ meno indulgenti. Oltre a ciò, non è che il sanglot venga sfruttato per particolari fini espressivi: c’è, viene utilizzato nella scalata all’acuto e la cosa finisce lì
- esiste la sensazione che Alvarez sfrutti in modo esagerato il “fascino latino” come se fosse il coperchio per tutte le pentole. Non è così, soprattutto in un repertorio come questo. Passi Werther (che, infatti, è forse la cosa meglio riuscita: ed è tutto dire); passi Des Grieux (entro certi limiti); passi, al limite, anche Romeo; ma Hoffmann, per esempio, non funziona proprio. E non funziona proprio per la mancanza totale di autoironia, di quel gusto un po’ agro che Alvarez dimostra decisamente di non avere. Esagerata vocazione tragedienne? O tendenza a prendersi troppo sul serio?
- esiste anche la sensazione non indifferente che si voglia trasformare nel tenore (verrebbe da dire “routinier”) buono per tutti gli usi. Può anche darsi che non sia tutta farina del suo sacco, ma il programma di questo dischetto è lì a dimostrarlo: da “La Fille du Régiment” (veramente poco interessante, tra l’altro, il “Pour mon ame”, vissuto con la sensazione di cadere dal trampolino da un momento all’altro: e questo sarebbe un brano che richiede esplicitamente i fuochi d’artificio vocali) a “Faust” in cui c’è un “Salut, demeure” imbarazzante, che non presenta nulla di scandaloso ma che sa tanto di prima lettura, senza assottigliamenti della trama, senza emozione sgomenta e con un do finale introdotto dal solito (qui fastidiosissimo) sanglot. Il disco è poi concluso da tutta la terribile scena di Arnold del Quarto Atto di Guillaume Tell; e ci sarebbe da chiedersi, alla luce di cosa si sente, come farebbe a reggere non si dice tutta l’opera, ma anche solo (si fa per dire) il secondo atto. Ma anche ipotizzando che la scena sia stata inserita solo per completare il disco, è tanta e tale la fatica per affrontarla che ci si chiede onestamente chi gliel’abbia fatto fare. Oltre a tutto, il mostruoso impegno vocale fa sì che venga perso di vista qualunque sforzo interpretativo.
Ma è veramente mostruoso, questo impegno vocale? A parte il brano del “Tell”, sembrerebbe proprio di no.
Anni fa Rockwell Blake uscì, per la Emi, con un disco di arie francesi che, ancora a distanza di anni, è da additare a modello vocale ed interpretativo. Siamo d’accordo: erano brani che esaltavano le (allora) immense possibilità del grande Rocky che, all’epoca, non trovando niente di meglio da dirgli, venne accusato di utilizzare troppo il registro di petto anziché quello misto di testa, nel quale sembrava l’erede di Gedda.
Bei tempi