Venerdì, 22 Novembre 2024

Norma

Aggiunto il 16 Agosto, 2013


VINCENZO BELLINI
NORMA

• Norma CECILIA BARTOLI
• Adalgisa SUMI JO
• Pollione JOHN OSBORN
• Oroveso TIZIANO BRACCI
• Flavio ROBERT GLEADOW
• Clotilde LILIANA NIKITEANU


Orchestra „La Scintilla“
GIOVANNI ANTONINI

Luogo e data di registrazione: Evangelisch-reformierte Kirchgemeinde, Zürich-Oberstrass, Svizzera, Aprile e Settembre 2011, Gennaio 2013

Edizione discografica: Decca, 2 CD

Note tecniche: registrazione ben equilibrata

Pregi: orchestra

Difetti: in tutta la registrazione manca la “scintilla” della personalità

Giudizio complessivo: images/giudizi/mediocre-sufficiente.png

Proseguono imperterrite le manovre di accerchiamento che Cecilia Bartoli sta facendo al grande repertorio belcantistico. Adesso è il turno di “Norma” che viene proposta dalla Decca con la solita nota di copertina che richiama la vera, autentica filologia.
Naturalmente, una notazione del genere non può far altro che irritare tutti coloro che invece si sono nutriti in modo rilevante delle grandi interpreti del ruolo, soprattutto del passato; e di questa eletta corte la Bartoli non può far parte né adesso, né probabilmente mai. Sgombrando preventivamente il campo agli equivoci, diciamo subito che l’operazione della cantante romana è interessante per alcuni incisi, per alcune belle intuizioni di fraseggio e per ben poco altro, giacché il problema principale è che la Bartoli non trova mai la cifra esatta di un personaggio talmente monumentale e polisemico da richiedere una personalità soverchiante.
Cecilia Bartoli, invece, non è una personalità soverchiante.
O meglio: non è una personalità adatta a ruoli come questi, che richiedono autentiche mattatrici in grado di accentrare su di sé tutto il peso della recita. Oltretutto, le sue performance più recenti sono proprio quelle disco-monografiche in cui lei si fa carico della riscoperta di brani antichi, desueti, fuori dal repertorio, in cui può far valere le ragioni del proprio canto discutibile, ma indiscutibilmente rutilante, rinunciando così aprioristicamente a tutto ciò che invece costituisce il sale di una vera e propria recita teatrale. Questo substrato fa sì che Cecilia Bartoli proponga in Norma, o quantomeno nella maggior parte di essa, tutte le mossette e le faccette buffe che abbiamo imparato ad amare in quelle parti Sei-Settecentesche in cui lei ha cambiato completamente le sorti dell’interpretazione. Facciamo un esempio: se pensiamo al repertorio vivaldiano, è indiscutibile che esso sia cambiato drasticamente dopo che ci è passata lei. Tu te le altre che sono venute dopo di lei, in qualche modo l’hanno avuta come riferimento, spesso ingombrante, non sempre replicabile, ma ricco di originalità e di furore esecutivo; come ho già detto in altre occasioni, si può discutere se quello della Bartoli “sia” Vivaldi; ma non sul fatto che il Prete Rosso, nelle sue mani, diventi una creatura viva, palpitante, talvolta rockettara, molto spesso esagerata, comunque la si rigiri profondamente “sua”.
Questa, però, non è interpretazione: è mettere al servizio di un repertorio la propria abilità di esecutrice scaltra come una faina in grado di vendere per “esegesi” quello che, in realtà, è solo esibizione di altissimo magistero tecnico che diventa astuta manipolazione e, al limite, corruzione del testo che, da quel momento in avanti, non sarà più la stessa “cosa”.
Questa cifra esecutiva, che conosciamo tutti molto bene e che possiamo chiamare “bartolismo” o in qualsivoglia altro modo, è quella che meglio codifica la Norma della cantante romana. Mi sembra, infatti, che questa connotazione emerga soprattutto nei passi più arroventati e declamatori, che Cecilia risolve come al solito con i suoi rantoli esagitati. Si pensi per esempio a “guerra, stragi, sterminio”, emesso dalla Bartoli come fa abitualmente quando è agitata da due venti, come cioè si trovasse a dover salvare un’aria di furore di Araja o di Steffani. Quanto questo ambito abbia a che fare con l’universo stilistico di Bellini, è cosa che ognuno può capire: ci troviamo cioè di fronte al tentativo non propriamente legittimo, anzi un filino disonesto, di trasformare Bellini in qualcosa di completamente diverso, per renderlo funzionale agli esercizi stilistici di madame Bartoli.
Altrove, invece, la nostra Cecilia si apre oasi di pace e di serenità, che lasciano intravedere in filigrana la possibilità che la cantante romana possa occuparsi più proficuamente di ambiti diversi, come per esempio i ruoli Cinti-Damoureux (come ipotizzato a suo tempo sul nostro stesso sito da Matteo Marazzi): mi riferisco, per esempio, al duetto con Adalgisa, “teneri figli” oppure al bellissimo “qual cor tradisti” in cui il canto intimo e sofferto della Bartoli riesce a ottenere risultati di straniante bellezza.
Ma il resto, è francamente molto meno interessante. È giusto che una cantante curiosa, eccentrica come la Bartoli esplori tutti gli ambiti di proprio interesse; ma senza necessariamente pretendere di mettere il punto fermo definitivo sul ruolo, specie se non ne ha tutti i requisiti. Prendiamo per esempio “Casta Diva”: la cavatina viene cantata nella tonalità di fa maggiore, e non in quella di sol maggiore che, ovviamente, sarebbe stata esiziale per il tipo di vocalità della cantante romana. Il problema è che filologia richiederebbe forse la tonalità di sol maggiore, che non è adatta a un teorico mezzosoprano e che infatti costrinse Bellini all’abbassamento in fa maggiore per le esigenze di Giuditta Pasta. Questo è quindi un pasticcio, che non c’entra niente con la “Norma scritta da Bellini”.
È invece interessante, nella stessa aria, la scelta di variare la seconda strofa: le variazioni sono gradevoli, di buon gusto, e contribuiscono a creare un’atmosfera di sospensione che giova alla magia del brano.


Come operazione filologica, è quindi complessivamente un po’ farlocca: abbiamo, in buona sostanza, una diva abituata al repertorio barocco e pre-barocco; un soprano nel ruolo di Adalgisa (ma questa non è una novità); un tenore che – teoricamente – non c’entra niente con il ruolo; e un’orchestra specializzata in repertorio barocco.
Però, Norma non è un’opera barocca. È verosimile che le orchestre ai tempi di Bellini viaggiassero a ranghi ridotti, quantomeno in rapporto agli organici delle orchestre a noi contemporanee, e su diapason differenti. Ed è parimenti verosimile che le dinamiche fossero differenti. Però, soprattutto nel preludio, si ha la sensazione di trovarsi di fronte a una vera e propria orchestra barocca, il che non ha nessun senso, considerando l’epoca di scrittura dell’opera. Sono sempre favorevole alle nuove sonorità; a condizione, però, che abbiano un senso e una loro collocazione storica, altrimenti è un esercizio di “famolo strano”.
Detto questo, per amore di onestà, c’è da dire che Antonini risulta più convincente con gli ascolti successivi: ancora una volta, niente che faccia gridare al miracolo, ma comunque convincente.

Quanto a Pollione, si tratta notoriamente di un ruolo Donzelli, vale a dire una parte scritta per un cantante dalla voce baritonaleggiante che faceva gli acuti in falsettone; e qui, invece, abbiamo un cantante che con questo universo non ha nulla a che spartire. Poi, siamo d’accordo: è verosimile che neanche Corelli avesse nulla a che spartire con il repertorio di Donzelli, però in compenso aveva altri elementi di credibilità che lo rendeva interprete quantomeno credibile. In questo contesto, il buon Osborn si disimpegna in modo gradevole, trovando accenti interessanti; ma non è Pollione.

Appena più appropriata la presenza di Sumi Jo, anche se ormai un po’ stagionata per un’esperienza del genere. Non fa nulla di indecoroso – canta anzi benino – ma non rimane nella mente né nel cuore.
Pertusi fa il suo onesto mestiere e canta con lo stesso.

Alla fine, credo che il peccato maggiore di questa operazione bartoliana sia di trattare Norma alla stregua di uno dei suoi (ormai tanti) dischi di arie barocche, e non tanto per l’approccio musicale propriamente detto, quanto per il fatto che manca il filo conduttore, il trait d’union: questa registrazione è una sequenza di topics, di leitmotive, di arie e duetti celebri cantati da una primadonna che – solitamente – si dedica ad altro.
Manca il criterio.
Chi è Norma, per la Bartoli?
Dove vuole andare? Cosa fa? Cosa vuole dire, cosa ci rappresenta? Che ruolo ha nell’estetica del suo tempo? Che ruolo potrebbe avere nei nostri tempi?
Manca, insomma, il personaggio. Manca quel “quid” che – al di là delle ovvie differenze vocali – rende la Norma della Sutherland distinguibile da quella della Callas.
In due parole, manca l’anima.
Non è un peccato da poco
Pietro Bagnoli

Categoria: Dischi

 

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