Macbeth
Aggiunto il 07 Dicembre, 2012
La querelle sul "baritono verdiano" sembra non avere mai fine. E dire che ognuno di noi, a seconda dell'età, dei ricordi, delle impressioni, delle esperienze d'ascolto e - perché no - degli indottrinamenti di taluna critica, ha un concetto molto personale di "verdianità". E quindi giù con le lodi a Hampson, perchè - fortuna - l'epoca dei Bastianini è lontana. Oppure giù con le lodi a Bastianini, perchè "lui sì che cantava, non come quell'Hampson che, al più, si dovrebbe limitare alla liederistica". Che ci piaccia o non ci piaccia Hampson, la colpa o il merito (a seconda del partito che sosteniamo) di questo spostamento dell'asse vocale-interpretativo verdiano va dato ad una sola persona: Dietrich Fischer-Dieskau. Lo diciamo subito, il nostro compianto (anti)eroe non è certo l'ideale baritono verdiano. "Ah ecco, allora avevo ragione io", si affretterà ad apostrofare il nostalgico vociomane; "l'ho sempre detto che quello lì, pace all'anima sua, non aveva proprio voce". In realtà il nostro amico vociomane un po' di ragione dalla sua ce l'ha, dato che la "voce" (come la intende lui, si capisce) Fischer-Dieskau proprio non ce l'aveva. E allora? abbiamo forse sciolto l'arcano della verdianità? Non proprio, atteso che chi scrive crede che neanche Bastianini fosse l'ideale baritono verdiano. Anzi, sarò sincero, non voglio neanche preoccuparmi di misurare quanta (e quale) sia la verdianità insita in ogni interprete, perchè mi basta sapere che, nel canto come nella vita, se guadagno qualcosa devo rinunciare a qualcos'altro. Con Dieskau ho perso il tonnellaggio, la potenza, la pienezza del timbro e persino la giustezza e la perentoietà degli accenti, ma ho guadagnato una cosa enorme e (fino ad allora) inedita: l'ampiezza della tavolozza. E per frantumare l'idea di verdianità monolitica che si è tramandata nella scuola italiana bisognava assestare un colpo molto potente.
Ma ora vorrei fare un attimo un passo indietro, prima di continuare questo discorso. Perchè l'opera di cui parliamo, il Macbeth, è forse l'opera più strana del genio di Busseto. E' infatti l'unica opera giovanile su cui il maestro in persona rimette mano, a distanza di quasi vent'anni. La cosa che mi colpisce della revisione del Verdi maturo, tra le altre, è la sostituzione di alcuni numeri solistici: l'aria Trionfai! securi alfine di Lady Macbeth diventa, nella revisione del '65, la più efficace e moderna La luce langue, mentre la cabaletta Vada in fiamme e in polve cada del protagonista diventa... un duetto! Anzi IL duetto, giacchè Ora di morte e di vendetta rappresenta non solo il culmine drammaturgico dell'opera ma anche la perfetta esemplificazione della relazione psicologica che esiste tra i due protagonisti nel loro unico momento di contatto mentale. Risultato? Lady Macbeth canta praticamente in continuazione (sortita e cabaletta nel primo atto, arioso e brindisi nel secondo, grande scena del sonnambulismo finale), mentre a colui che dovrebbe essere il personaggio principale dell'opera (che, lo ricordiamo, si intitola ancora "Macbeth"), il buon Peppino riserva una paginetta nel finale, peraltro neanche particolarmente memorabile. Macbeth, in altre parole, canta davvero solo alla fine. Per il resto "parla". Parla con Lady Macbeth, parla con le streghe ma, finchè la sua consorte non muore, non agisce mai da solo. O dovrei dire non pensa. O meglio ancora, pensa, e anche tanto, forse troppo, ma i suoi pensieri sono così esili e confusi che non riescono a comporre una forma precisa, neanche una forma musicale. Quale voce migliore, per un ruolo "parlante", se non quella di un baritono che "parla"? Mi rendo conto che detta così può sembrare che Fischer-Dieskau non canti, affatto, il nostro canta eccome, ma con la voce di un attore. Le sfumature, le inflessioni impercettibili, le aperture e le microvariazioni dinamiche che contraddistinguono la voce del parlato vengono "riprodotte" da Dieskau nel canto in maniera impressionante. Come uno svergognato, egli smaschera (in tutti i sensi) la sua voce. E smaschera anche i suoi colleghi "baritoni verdiani".
Per fare ciò, va da sè, il baritono tedesco compie forse l'atto supremo di profanazione della tradizione: rinnega un secolo di "tecnica". La differenza sostanziale tra lui e gli altri grandi sperimentatori della voce è la consapevolezza da parte di Dieskau della necessità di una tecnica nuova: il grande e altrettanto compianto Pippo Di Stefano fu maestro nel ritrovare sonorità genuine e "umane" nella sua voce, ma è pur vero che, cantando notoriamente "a braccio", ne limitò presto le potenzialità; la divina Callas in questo senso partiva con un bagaglio tecnico e culturale più ferrato e consapevole, ma anche lei, non avendo riferimenti altri se non la sua voglia di andare "oltre", immolò presto il suo strumento sull'altare della modernità. Dieskau non è stato meno rivoluzionario dei citati colleghi e - detto per inciso - se non si è spaccato la voce, è solo perchè ha trovato la quadratura del cerchio tra l'esigenza del colore e quella di una fonazione naturale e non dannosa. Se volete, è stato il primo esempio vivente del fatto che si può cantare in maniera "moderna" ed essere longevi come l'Olivero. Portate ora questo concetto di "canto moderno" nell'opera verdiana, otterrette una rivoluzione nella rivoluzione. E come per magia un ruolo sulla carta deludente, senza romanze nè bordate, un ruolo fatto di dettagli e non di gesti, dove un "Ove son io?!" è più importante di 10 cabalette e 100 invettive, diventerà qualcosa di nuovo. E se c'è un cantante che "non butta via niente" questo è Fischer-Dieskau. Ho detto diventerà, ma in realtà Dieskau scopre solo alcune potenzialità che la scrittura contiene già in sè: non fa suonare Verdi come Hindemith, è quel Verdi che si avvicina ad Hindemith di suo, ma noi non l'avevamo mai notato perchè nessuno era stato capace di farcelo notare. Se poi, come in questo caso, si verifica una di quelle fortunate congiunture tra tipologia vocale, sensibilità dell'interprete e costruzione del personaggio, comprendere i miei vaneggiamenti è ancora più semplice. Non sono fan del Rigoletto di Dieskau, o dovrei dire che lo trovo illuminante, ma molto poco convincente. Non solo perchè, banalmente, in quell'opera "c'è più canto verdiano", ma anche perchè il personaggio rozzo ed esplosivo del buffone non si attaglia per nulla all'atteggiamento aulico, allusivo e corrosivo dell'interprete. Tant'è che l'interprete, a disagio, è costretto a calcare la mano sui punti "hot", berceggiando non meno di tanti suoi storici e vituperati predecessori. Con Macbeth la storia è un'altra. Macbeth è personaggio fragile sì, ma introiettato, non si difende come Rigoletto, subisce, elabora e si riplasma sotto i nostri occhi. E' l'esatto contrario del cocciuto e ignorante padre-buffone. E' un uomo nobile e maturo, ma schiacciato, inerme al plagio, forse anche impotente sessualmente, insomma un personaggio "precario", "piccolo" e "vuoto", che si abbandona all'evoluzione, che si riempie gradualmente grazie alla affluenza psicologica-erotica-esoterica della coscienza della consorte (che a sua volta, come nei vasi comunicanti, si svuoterà gradualmente della sua disumanità rivelando la sua natura fanciullesca). La sensazione è che Dieskau incarni già nella struttura della sua voce queste qualità di falsa grandezza mortificata (o di piccolezza portata all'esaltazione). Sensazione che, personalmente, non riesce a trasmettermi il per altri versi magnifico Warren, che dipinge un personaggio sì ricco di chiaroscuri ma magnificamente "enorme" sin dall'inizio. Dieskau invece va a segno con le sue armi, lavora sul silenzio, sui bagliori sinistri, e sul non-protagonismo. E fa centro. Pazienza (o menomale, se vi piace) se non è "verdianissimo" come Cappuccilli o Bruson.
Tanto più che un personaggio così costruito è affiancato dalla Lady di Elena Souliotis. Sulla Souliotis c'è poco da dire che non sia stato già detto, cantante dall'enorme potenziale (dono probabilmente del Signore) che rovinò miseramente approcciando ruoli improponibili ad un'età improponibile e con una tecnica improponibile. Nel 1970, l'anno di questa incisione, era già cotta e mangiata, e le sue "sparate" (di voce si intende) non riuscivano più a compensare la precarietà (d'emissione, d'intonazione, di sostegno) di quel restava della sua meravigliosa voce. Ma, aggiungo io, anche fosse stata integra non ci avrebbe restituito (con la sua attitudine interpretativa affidata totalmente all'istinto) una Lady memorabile sotto il profilo dello sviluppo psicologico; il modello Leyla Gencer - forse la Lady insuperata della storia della moderna interpretazione - sarebbe stato assai distante. Eppure la Souliotis ha il suo merito in questa incisione, anzi ne ha più d'uno. Il primo e forse più importante è quello di averci lasciato intravedere il "riferimento vocale" più corretto per questo personaggio. In una discografia costellata da orchesse (Rysanek), valchirie (Nilsonn), streghe (Verrett), streghette in preda all'esaurimento (Cossotto) o possedute dal demonio (Zampieri), la Souliotis è - che ci crediate o no - una boccata d'aria fresca. Potenzialmente la sua voce avrebbe tutto quanto richiesto, il legato, le agilità, gli slanci potenti verso l'acuto, i bassi di petto ma anche gli abbandoni da grande soprano lirico, e quel che ne rimane è sufficiente a farci capire che la voce che cerchiamo è proprio la sua. Anzi, provocatoriamente, dirò che l'immagine spettrale che dà il canto ebbro di una Souliotis alle prese con la sua fonazione incontrollabile, fissa, spoggiata, efebica ecc. è involontariamente più persuasivo di molti isterismi "ragionati". E il contrasto con il Macbeth di Dieskau è poi grottesco, quasi ai limiti della verità. Alla Souliotis sfuggono mille aspetti di Lady Macbeth, verissimo (cosa avrebbe fatto la Callas nel '59 possiamo solo immaginarlo), eppure la sua tragica inconsapevolezza, la sua istintualità ingenua, rendono ancora più grande l'operazione del baritono tedesco, gettando un faro non solo sull'interpretazione di quest'ultimo, ma in definitiva sulla contraddizione che anima i due personaggi, rispetto alla loro vera interiorità e in rapporto col partner. Del resto anche la Lady era solo una ragazza con manie di grandezza che annega miseramente nel personaggio che si è (mal)costruito.
Se su Pavarotti e Ghiaurov possiamo glissare tranquillamente (i loro ruoli sono marginali, e sono comunque ottimamente cantati da professionisti al top della loro forma vocale), due parole vorrei spenderle su Lamberto Gardelli, la bacchetta di questa edizione. Se è vero che Dieskau e Souliotis lanciano segnali (consapevoli e inconsapevoli, e certo con molte rinunce) di avvicinamento ad un modus interpretativo nuovo che mette in luce caratteristiche inedite dei loro personaggi, è pure che vero che lo sfondo è dipinto, coerentemente, con tocco proto-filologico. E' una filologia delle favole quella del 1970, dove il Trovatore di Minkowski non era raccontato neanche nei più spinti romanzi di fantascienza e quello di Karajan era l'alternativa alle tradizioni (italiane o tedesche che fossero), eppure Gardelli, professionista solidissimo e profondo conoscitore del verbo verdiano (sarà suo l'integrale delle opere di Verdi inciso, con risultati alterni, assieme ad uno stuolo di interpreti big del periodo), riesce a trasmettere una visione suggestiva, a tratti gotica, della narrazione senza suonare mai "troppo" e mai "fuori". Difficile per un'opera della prima metà dell'ottocento (ma già molto avanti) che contiene le scorie di vent'anni più in là, per giunta su soggetto shakespeariano. La tentazione è sempre quella di ricoprire tutto da un'allure pseudo-wagneriana da Otello ante-litteram (vedi Abbado), o di proiettare le contraddizioni dei protagonisti nel XXI secolo, oltre ogni collocazione spazio-temporale (vedi Sinopoli), oppure viceversa di risucchiarle nel passato remoto, rendendo il dramma diretto discendente della tragedia greca (vedi Muti), ovvero ignorandone gli abbandoni incontrollati e maliziosi. Ecco questo è ciò che NON accade. Anzi, l'apporto intepretativo di Gardelli parrà ancora più consistente se pensiamo che i direttorissimi citati vengono tutti dopo di lui, e che prima di lui l'opera era quasi saldamente in mano alla tradizione tedesca o tedescofila (Bohm, Gui, De Sabata, Leinsdorf, Sawallish) o a qualche nostrano battisolfa. Certo Gardelli, confrontato a posteriori con le intellettuali bacchette italiote della seconda generazione, vi potrà apparire deludente, nè carne nè pesce, eppure la sua patina equivoca, primo-ottocentesca ma all'occorrenza filo-tardoromantica rimane il fondale ideale per il consumarsi di questa autofagia delle umane menti, dove tutto appare quello che non è, dove l'essenza autentica delle cose è annidata nelle pieghe. Se siete disposti ad accettare di guardarvici dentro, questa forse potrebbe diventare la vostra incisione di riferimento.
Francesco Zicari