Meistersinger
Aggiunto il 19 Maggio, 2012
Con questa interessante registrazione la Pentatone inizia la propria celebrazione del bicentenario prossimo venturo – sempre che non si avveri la funesta profezia dei Maya – della nascita di Wagner.
Questo progetto, che coprirà tutte le dieci opere del cosiddetto “canone wagneriano” fissato da Cosima, è caratterizzato da alcuni aspetti interessanti che meritano qualche riflessione:
1. in un’epoca che tende ad abbandonare le registrazioni solo audio per i DVD e Blu Ray che, ovviamente, riprendono spettacoli teatrali, questa scelta si segnala per essere decisamente controcorrente. Si tratta di un’integrale solo audio, registrata dal vivo e di ottimo suono al punto da poter tranquillamente essere assimilata a un’incisione in studio. Ricordiamo che l’ultima incisione integrale del “canone” wagneriano era stata quella di Barenboim per la Teldec
2. la rinuncia agli spettacoli teatrali non si giustifica con la sola esigenza di concentrarsi sull’aspetto musicale. Esiste per qualcuno un problema con le regie, un problema su cui il nostro sito da qualche tempo ha posto la propria attenzione. Per alcuni appassionati l’opera lirica continua a essere una “vetrina” di voci eventualmente – ma non necessariamente – da corredare di immagini: uno spettacolo comunque sia allestito è un impedimento alla fruizione dell’evento musicale propriamente detto. Secondo noi questa è una scelta da retroguardia culturale, ma è innegabile che a vario livello esista un problema di “saturazione dei colori” e un’esigenza di controriforma, di ritorno al bianco e nero. L’opinione di chi scrive queste note è che il teatro continuerà ad andare avanti nonostante tutto, ma prendiamo atto dell’esistenza di derive retrograde (nel senso etimologico del termine) come questa della Pentatone
3. parimenti interessante è la scelta del direttore cui affidare un progetto del genere. Marek Janowski, classe 1939, polacco naturalizzato tedesco, direttore di un’orchestra prestigiosa ma non di primissimo piano come la Berlin Rundfunks, mai stato a Bayreuth, è uno di quei personaggi che inquadriamo facilmente nella categoria dei “Kapellmeister”: gente che conosce il repertorio a menadito, che ama la musica che dirige senza troppa fantasia ma con buon senso e logica narrativa
Ora, la domanda che è lecito porsi è: cui prodest?
Ci interessa veramente una nuova integrale solo audio quando ne abbiamo già a bizzeffe, alcune delle quali di riferimento assoluto?
Di più: ci interessa veramente un’integrale di Janowski che – ripeto – è un bravo, bravissimo, anzi ottimo interprete, una della massime espressioni di un percorso interpretativo provinciale (absit iniuria verbis: è anzi un’area che ha prodotto alcuni risultati importantissimi specialmente in campo wagneriano) che però troverebbe il suo alveo preferenziale in uno spettacolo teatrale compiuto?
Perché il problema è esattamente questo: finita definitivamente – io, almeno, credo così – l’epoca aurea in cui i Grandi Interpreti dovevano fissare su disco la propria interpretazione, non c’è più spazio per un’operazione del genere, a meno che non se ne faccia carico un reggitore bouleversant, uno di quelli che spiazza completamente l’ascoltatore.
Oggi come oggi, ammesso (e non concesso) che prima o poi possa volerlo, l’unico personaggio con queste caratteristiche potrebbe essere sir John Eliot Gardiner: con i suoi criteri esecutivi, con la sua orchestra, con gli interpreti “giusti”, quelli cioè in grado di raccogliere la sfida di una proposta radicalmente diversa dalla tradizione.
Quello che ascoltiamo qui, invece, è la più pura “tradizione” di area provinciale tedesca (ripeto: nessuna connotazione negativa, è solo mera collocazione culturale) proposta da uno dei suoi più collaudati esegeti.
Chi sia Janowski, lo sappiamo benissimo: un affidabile esecutore che aveva già lasciato al disco alcune buone interpretazioni come, per esempio, il suo Ring degli Anni Ottanta. Una registrazione che si ascolta ancora oggi con piacere, cantata da alcuni ottimi interpreti e da una schiera di bei professionisti; ma una registrazione che decisamente non ha cambiato la storia dell’interpretazione.
A quei tempi – sono passati trent’anni: mica una bazzecola – si poteva fare: era una moda, un fatto culturale ed è un fenomeno che abbiamo già parzialmente analizzato su questo sito; oggi invece una proposta del genere non ha nessun senso. I nostri tempi sono caratterizzati dalla valutazione dello spettacolo nella sua integrità, com’è giusto che sia trattandosi di uno spettacolo teatrale; il DVD e il Blu Ray sostituiranno definitivamente il CD, quanto meno nelle nuove produzioni. L’unico spazio per il CD sarà quello di fissare la registrazione dei nuovi repertori, delle riscoperte oppure, dei cambiamenti di prospettiva: come potrebbe essere, per l’appunto, un Ring o un Meistersinger affidati a un direttore che provenga da area completamente diversa rispetto a quello cui siamo abituati.
Che senso ha quindi scegliere un direttore reazionario, che non era innovatore nemmeno trent’anni fa e anche oggi apertamente poco favorevole a tutto ciò che potrebbe “distrarre” l’ascoltatore dalla fruizione della musica?
A mio parere, nessuno.
Ciò però non impedisce che il prodotto finale sia – come in questo caso – assolutamente gradevole e più che degno di collocarsi nelle posizioni medio-alte di una discografia nutrita e variegata.
Il prodotto finale è interessante.
Janowski ha il senso della narrazione e sa quello che dice. Sin dal preludio si riescono a percepire alla perfezione tutte le cellule tematiche, “raccontate” in modo elegante e con estrema fluidità. Il canto è accompagnato benissimo e si percepisce lo sforzo di dare alla compagnia di canto che ha una punta di eccellenza e che, nel resto, vanta omogeneità e coesione.
Cosa manca, quindi?
Il guizzo del genio.
La presa di posizione netta in una vicenda che, oggi, ha definitivamente scavalcato il bozzettismo oleografico per assumere i contorni di una delle opere più serie e problematiche del repertorio wagneriano. Non solo: manca proprio l’identificazione dei landmarks oggi a noi consueti, come l’etica della rinuncia (che, come ricorda il denso saggio introduttivo, era vissuta dallo stesso Autore nella definitiva rinuncia a Mathilde Wesendonck), il conflitto fra novità e tradizione, il ruolo dell’Artista nella società.
E oggi, se nell’esecuzione dei Meistersinger mancano questi aspetti, manca sostanzialmente tutto: avremo quindi un prodotto potabile, gradevole all’ascolto, ma non un’interpretazione; e questo, ai nostri tempi, è un peccato davvero esiziale.
La compagnia di canto è dominata da Albert Dohmen. Voce scura, imponente, torrenziale, più da basso che da baritono (Alberto Mattioli nel suo libro “Anche stasera” dice sapidamente di Dohmen che non ha “corde”, ma “gomene” vocali) e allure conseguente, come peraltro Schorr, Hotter, Adam e tanti altri prima di lui: quella di Wotan. Per quanto mi riguarda, è un’impostazione assolutamente irresistibile se l’interprete è un fuoriclasse, e fortunatamente Dohmen lo è. Non c’è passaggio, inflessione, inciso che sia trascurato da questo splendido cantante, no di quelli che impreziosiscono la nostra epoca, e che – come Sachs – è notevole anche per autoironia. I quattro monologhi sono tutti eccellenti: forse manca un po’ di poesia e riflessione intima in quello del lillà del secondo atto ma, in compenso, è splendido per autorità in tutto il terzo atto con una punta di eccellenza nel “Euch macht ihr’s leicht, mir macht ihr’s schwer” che raramente ho sentito risuonare con tanta autorità morale. E, ovviamente, del pari eccellente anche il finale che non lo vede per niente in difficoltà nonostante la tessitura. Ma Dohmen – la cui interpretazione è talmente esemplare da porsi come paradigma per i nostri tempi – è davvero bravo anche nel canto di conversazione sia con Eva che, a maggior ragione, con Beckmesser. Insomma, una prova maiuscola.
Al suo fianco il resto della compagnia non è male, ma decisamente non allo stesso livello.
Il migliore degli “umani” è Robert Dean Smith: è davvero bravo. Lega, sfuma, alleggerisce, rinforza: fa tutto quello che deve fare e lo fa anche bene, ma gli manca la scintilla del fuoriclasse o, in alternativa, quella naiveté che dovrebbe caratterizzare l’emotività di Walther. I suoi lieder comunque sono molto ben cantati.
Si scende invece di un po’ con Henschel, gran bravo liederista e notevole interprete di Bach, che – scelto probabilmente per evitare le vaccate troppo spesso annesse al personaggio di Beckmesser – cade nel problema opposto: manca totalmente di senso dell’umorismo e fa troppo la faccia seria.
L’unica italiana della compagnia è Edith Haller, nativa di Merano. Oggi è una delle interpreti più accreditate dei ruoli wagneriani angelicati, ma personalmente non mi convince. La voce ha un impasto interessante ma gli acuti sono piuttosto difficili e l’interprete non prende una posizione, rimanendo lì, sullo sfondo: le stesse problematiche che mi avevano colpito sfavorevolmente nella sua Sieglinde.
Ottima Michelle Breedt e spigliato Peter Sonn.
Discreti i maestri fra i quali non brilla particolarmente il Kothner di Pursio.
Chapeau infine al cammeo di Salminen.
Registrazione eccellente
Pietro Bagnoli