Norma
Aggiunto il 27 Maggio, 2017
Nel 1954 Maria Callas aveva 31 anni ed era al top delle proprie immense possibilità. Il personaggio di Norma non le era ignoto, l’aveva già affrontato in teatro e quindi arriva al disco con l’esperienza di un lungo lavoro sul palcoscenico.
Se volessimo seguirla in questo ideale percorso, la prima testimonianza risale a una delle trasferte del 1950 a Città del Messico; lì l’unica all’altezza è Giulietta Simionato, anche se il modello esecutivo di questa Adalgisa non è sicuramente Giulia Grisi (ma bisognerà aspettare molto per arrivarci).
Segue poi quella di Londra diretta da Gui, con la Stignani e Picchi, e la curiosità di trovare come Clotilde Joan Sutherland, vale a dire colei che diventerà “l’altra” Norma.
Infine, arriviamo a questa registrazione, che consacra la collaborazione con Tullio Serafin, colui cioè che meglio aveva capito le potenzialità di questa ragazzona greca che cantava Wagner ma che vocalizzava sui Puritani. Serafin le aveva fatto imparare Isotta nel 1947 e l’aveva fatta diretta proprio in “Puritani” – al posto della Carosio – nel 1949.
I compagni di viaggio scelti per la registrazione, peraltro, non sono esaltanti; sembra anzi un cast assemblato in qualche modo per non fare ombra alla straordinarietà della prima donna.
La Stignani – sulla carta, una scelta quasi obbligata in questo ruolo in quel periodo, se non si voleva ricorrere alla Simionato – era più vecchia di 20 anni e si sentono tutti. La voce, ci mancherebbe, è un monumento, ma di quelli pieni di crepe. Il carisma esiste ancora, ma la credibilità è prossima allo zero kelvin.
Filippeschi è un’altra scelta strana. All’epoca di questa registrazione ha 47 anni, una grande carriera basata sugli acuti e niente altro. Della grande tradizione del baritenore in stile Donzelli all’origine del suo personaggio, sembra non importargli nulla: spara le sue note in un modo un po’ piacione e la cosa finisce lì.
Peggio ancora Rossi Lemeni che, più vecchio della Callas di soli 3 anni e decisamente più giovane degli altri due, mostra la vocalità di gran lunga più scardinata; e, soprattutto, in un contesto così coturnato come quello creato dal connubio soprano-direttore, non ha nemmeno modo di esibire la ben nota personalità che metteva in ogni sua performance.
A fronte però di tutto ciò, ci sta Lei.
Non credo di aver parole sufficienti per definire il lavoro svolto non solo su ogni singola nota di questa parte così polisemica, ma anche su ogni singola parola.
Ritorniamo per un istante alla cronologia delle registrazioni: 1937 Cigna (due registrazioni dal vivo), 1944 Milanov (ancora due registrazioni dal vivo), poi arriva lei e chiude la partita: punto, set, match. Nessuna di queste cantanti drammatiche dimostrava il possesso di quelle doti tecniche indispensabili per giustificare il recupero di questo titolo; ma anche dal punto di vista interpretativo il personaggio rimaneva confinato in limiti non propri, quelli di una generica violenza espressiva buona per tutti gli usi.
La stessa Rosa Ponselle, l’antecedente più significativo per qualità intrinseche ed intelligenza esecutiva, non possiede nulla dell’idiomaticità sfoggiata dalla cantante greca che riesce a fondere in un’unica personalità tutte le enormi esigenze del ruolo.
È probabile che non ci sarebbe riuscita a questi livelli senza la partecipazione di Tullio Serafin, molto di più di un pigmalione, ma in realtà anche con gli altri direttori dimostra precocemente di conoscere nei dettagli il linguaggio belcantistico che, da lei in avanti, viene tolto dalle competenze di due diverse tipologie di cantanti e riscritto ex novo.
Elvira era passata da Margherita Carosio a lei; Norma, invece, l’aveva ereditata da soprani con caratteristiche più drammatiche, come la stessa Ponselle o la Milanov, ma anche Eugenia Burzio, Giannina Russ, Adalgisa Gabbi, Celestina Boninsegna e Claudia Muzio.
È lo stesso passaggio che caratterizzerà anche l’incarnazione di Lucia, altro ruolo in cui la Callas si porrà come spartiacque.
Il dominio tecnico di tutti i passaggi di coloratura, quello in cui cadevano le altre “drammatiche”, è sbalorditivo: si ascolti, per esempio, la vocalizzazione rapida di “Ah bello a me ritorna”, o lo stratosferico, fosforescente “I Romani a cento a cento”.
Il recitativo d’ingresso presenta un’autorità ferma incredibile, che si scioglie in un “Pace v’intimo” alitato in un soffio. Il “Casta Diva” presentava già una tinta lunare malinconica meravigliosa nell’incisione solistica (senza coro) del 1949; ma qui è superlativo, grazie anche all’intesa pressoché perfetta col direttore. Ed è la stessa tinta che si sente in “Oh rimembranza”, che avrebbe meritato una partner più affettuosa del grigio monolito della Stignani.
La scena dei figli, a questo livello, non sarà più eguagliata da nessun’altra. E il finale, nonostante la presenza di un vero e proprio bietolone (le capiterà spesso, purtroppo, in sala d’incisione, anche in altri titoli), vive di una verità soggiogante grazie all’uso violento delle parole.
Credo che questa registrazione sia quella che meglio rende conto di ciò che sia stata la Callas non solo e non tanto all’epoca, ma ancora oggi, nell’immaginario degli appassionati.
Peccato per il contorno, ma questa incisione, che vive sostanzialmente sulle spalle della protagonista (e direi anche del direttore), è un capolavoro
Pietro Bagnoli