Venerdì, 17 Maggio 2024

Trovatore

Aggiunto il 16 Luglio, 2011


Giuseppe VERDI
IL TROVATORE

• Manrico CARLO BERGONZI
• Leonora LUCINE AMARA
• Il Conte di Luna ROBERT MERRILL
• Azucena JEAN MADEIRA
• Ferrando WILLIAM WILDERMAN
• Ines TERESA STRATAS
• Ruiz CHARLES ANTHONY
• Un vecchio zingaro CARLO TOMANELLI
• Un messo ROBERT NAGY

Chor of The Metropolitan Opera
Chorus Master: non indicato

Orchester of The Metropolitan Opera
FAUSTO CLEVA

Luogo e data di registrazione: Fox Theatre Atlanta (Georgia) 6/5/1960
Ed. discografica: Walhall, 2 CD economici

Note tecniche sulla registrazione: discreta, ma le voci appaiono in secondo piano rispetto all’orchestra. Pubblico invadente

Pregi: Bergonzi, la Stratas, nonché l’efficienza della direzione

Difetti: Amara, Madeira e in parte Merrill

Valutazione finale: images/giudizi/sufficiente-discreto.png

Video:

Nel suo catalogo particolarmente folto, la Walhall ci presenta esecuzioni che nascondono vere e proprie curiosità, se non addirittura piccole perle. Dinanzi a questa esecuzione mi sono accostato munito, da un lato, di un pregiudizio negativo e, dall’altro, da molta curiosità orientata più verso gli esecutori vocali che non verso il direttore. Cleva, particolarmente ricorrente in esecuzioni live come questa, non mi ha mai colpito per personale acume, ma neppure l’ho mai considerato da gettare ai rovi in toto. È vero che taglia i ‘da capo’ delle cabalette, però altri mediocri direttori lo superavano, non soltanto per i tagli, in quegli anni in fatto di superficialità esecutiva (da noi e … fuori porta). Qui il buon Fausto ci offre una discreta prova anche se a volte un po’ arruffata e affrettata (finale I scena del I atto), ma altrove non priva di eleganza e di mistero (l’introduzione è decisamente buona). Diciamo che questa è un po’ la sigla della sua direzione: la discrezione; un fatto che aiuta molto l’esecuzione di «Tacea la notte placida» senza creare particolari problemi ad un soprano (la Amara) che è un po’ la palla al piede di quest’edizione e che, a volte, è ai limiti dell’udibilità, tenendo conto che l’orchestra risulta spesso essere in primo piano rispetto al cast. Però c’è da dire che Trovatore non è Traviata o Rigoletto (dove vige certa ‘etichetta di corte o di cortigianeria’) e, in certi punti, l’orchestra deve o accendersi (cabaletta «Di tal amor..») o arroventarsi, perché accanto all’immagine lunare c’è quella zingaresca e quella militare. Quando compaiono queste ultime dimensioni, ecco troviamo uno stringere di tempi e una frettolosità abbastanza generica, però se non altro mai volgare. La potremmo considerare come generica efficienza e ciò rende, ad esempio, il terzetto finale del I atto ben condotto, con le voci che si accompagnano con l’orchestra. Ciò che si può imputare a Cleva è, ad esempio, non aver impedito ad alcuni cantanti (la Madeira in alcuni passaggi della I scena del II atto, Merrill le battute che precedono il terzetto finale del I atto) certi modi piuttosto volgari.
Buona, specie sul piano della nitidezza, masenza essere trascendentale, l’apertura degli zingari nel II atto. Tuttavia vi manca quella forza barbarica che il momento dovrebbe suggerire. Tutto resta nei termini della compostezza (e tale sarà anche tutta l’introduzione del III atto da «Or con i dadi…» fino a «Squilli echeggi…»: ben eseguita, ma formale). Anche l’accompagnamento del finale di questa scena iniziale del II atto è piuttosto velocizzata e resta un po’ epidermica (anche se il tenore non passa sulle note come fa il mezzosoprano). Anche la comparsa di Manrico nel chiostro (che dovrebbe fungere da proverbiale “arrivano i nostri”) non è esplosiva come dovrebbe. Lo stesso dicasi per il finale del II atto. Meglio resa la scena della pira e quella del duetto Conte-Leonora specie nella prima parte, mentre piuttosto affrettata appare la conclusione. La scena conclusiva del carcere inizia con toni piuttosto morchiosi, mentre incalzante è il ritmo che sostiene la confessione di Leonora (anche se questa le è inferiore per peso vocale). Generica la parte finale.
Merrill ha molta voce, ma non altrettanta nobiltà. Il suo «Balen» inizia discretamente e procede bene, ma in alto la voce ha sempre un sentore di forzatura, oltre a presentare, nella parte finale dell’aria, certa monotonia espressiva. Nel coro che precede il fallito rapimento di Leonora, Merrill sa cantare piano e questo è un pregio. Comunque sta di fatto che l’espressione violenta e a piena voce gli è più congeniale del canto raccolto. Ce ne accorgiamo anche nel duetto con Leonora del IV atto: voce robusta, ma monotona. Anche le battute finali sono analoghe per suono. Un Conte riuscito a metà, almeno per me. Un Mc Neil, stando a quegli anni, avrebbe fatto molto, ma molto meglio (tra l’altro, a quanto ne so, non ha mai inciso quest’opera verdiana).
La Amara trasforma la nobile Leonora in Musetta o Despina perché la sua voce piccola è anche timbricamente puerile. In alto, il soprano non ci risparmia brutti suoni (parte finale di «Tacea la notte placida»). Ma quando l’orchestra suona sul forte o sul mezzzoforte la Amara sparisce (la cabaletta «Di tal amor» è un flebile cinguettio indistinto udito per metà). Ciò risulta anche dal confronto con l’Ines che le fa da interlocutrice e sulla quale mi soffermerò più avanti. Ma tutta l’espressione della Amara (scena del chiostro) è zuccherosa e melensa, per non parlare dell’«È deggio e posso crederlo…» che segue, così tanto da Susanna mozartiana. È chiaro che il terzetto che si sviluppa è ad appannaggio degli uomini (Merrill e Bergonzi). Nella scena II del III atto risulta poi flebile e manierata («L’onda dei suoni mistici»).
Nel IV atto, Leonora è chiamata a diversi impegni e la Amara si ripresenta con tutte le sue stucchevoli caratteristiche: sin dall’inizio sono banditi ogni nobiltà ed eroismo («salvarlo potrò forse»), i vari melismi che precedono l’aria «D’amor sull’ali rosee» sono accennati. La stessa aria offre piccoli suoni ed un andamento interpretativo poco rispondente al momento. Cleva rallenta molto l’accompagnamento, ma si sente che la cantante vola qualitativamente basso e, nel registro alto, emette suoni brutti. La cadenza è molto sommaria e la puntatura finale in acuto è evanescente (e il pubblico come sopra…). Ci viene risparmiata la cabaletta («Tu vedrai»), ma neppure il Miserere è memorabile (in certi punti la Amara apre anche il suono) se non ci fossero le battute di Bergonzi dalla torre dei prigionieri. Nel successivo duetto con il Conte il tono è soubrettistico e la voce è davvero piccola; inoltre nella seconda parte del brano («Vivrà contende il giubilo») si sente una cantante dinanzi anni luce dal personaggio, nonostante l’esattezza della vocalizzazione. Nella scena del carcere non abbiamo variazioni di sorta: voce troppo leggera e fragile specie in basso (cf. «Fuggi, fuggi o sei perduto…»). Ma lo scarso volume e la situazione piuttosto incalzante dell’orchestra (con i relativi accordi che esssa comporta) la rendono poco udibile. Anche quanto segue è scarsamente espressivo («Prima che d’altri vivere…»). Con questi elementi è facile arrivare alla conclusione: Leonora decisamente da bocciare.
La Madeira specie in «Stride la vampa» appare un po’ lontana, ma ciò non impedisce di udire frasi sguaiate in basso (es. «di balzA in balzA») e non mostra disinvoltura in alto. Esegue le note e nemmeno troppo ordinatamente (cf. il breve scambio di battute con Manrico prima dell’aria «Condotta ell’era in ceppi», momento questo dove la dizione non è particolarmente scandita ed efferata e manca dell’allucinazione del momento). Inoltre nelle frasi più ardue dove la voce deve tenere, in zona medio-acuta, la Madeira non è un prodigio. A volte si cade nel grottesco con incupimenti lupeschi (la frase «Sul capo mio le chiome sento drizzarsi ancor», ma il pubblico – come dice Canio – applaude allegramente, eccome!), oppure con eccessi veristi («Ma nell’alma dell’ingrato…» e quel che segue). Nella scena con il Conte esordisce poi con il dilatare il registro medio con il risultato di sconvolgere la dizione: il seguente «Giorni poveri vivea» è passabile, ma il «Rallentate o barbari» ci presenta, sotto una colonna sonora molto pulsante di Cleva, qualcosa che non si ascolta tutti i giorni, a suo modo spettacolare. Ma è forse l’unico frammento veramente fremente di quest’esecuzione. Nella parte finale dell’opera la linea vocale della Madeira appare più contenuta, ma manca sul piano interpretativo quell’ossessione paurosa ed evocativa che il momento richiede, lo simula soltanto non esimendoci da allargamenti di suono (la frase «Il rogo, il rogo, parola orrenda», ma non solo lì): ossessione di una donna che, presso a morte, rivede come un film horror, una tragedia della quale è stata coprotagonista. Nell’unisono «Ai nostri monti» abbiamo una esecuzione aliena da brutture vere e proprie. Nel finale dell’opera però la Madeira cede e il «Sei vendicata o madre» le riesce proprio male.
Bergonzi è splendido ad onta dell’enfasi e di un registro acuto non certo ‘espada’. Però abbiamo fierezza di cavaliere unita a momenti dolci e teneri (la breve frase «O madre non saprei dirlo a me stesso» è un gioiello). Ma ciò che stupisce è la compatezza dello strumento unita poi alla sagacia con la quale il tenore emiliano dà significato a parole e sillabe del libretto. Nel finale della scena con Azucena (II atto) si sente la differenza abissale (interpretativa e vocale) tra Bergonzi e la Madeira. Ottima la scansione nel finale II con la quale Bergonzi contrasta Merrill. Nella II scena del III atto, Bergonzi detta legge, specie nell’emettere bei pianissimi (la frase «ti favelli il core»: altro gioiello). L’«Ah si ben mio» si carica anche di un sentore di terrore sotterraneo, oltre che struggimento. Alcune notevoli arcate di fiato completano il brano. La pira è molto animata (anche se abbassata) nella scansione delle frasi, ma si ripresenta qui la tecnica di Bergoonzi che lega e unisce i suoni, senza slabbrature di sorte. La conclusione («All’armi») però è stentata perché la nota è presa male. Nella scena del carcere, il tenore si segnala per accenti commossi verso Azucena e, successivamente, disperatamente violenti verso Leonora, almeno fino alla scoperta della verità. In seguito, il tono cambia ed abbiamo una sapiente alternanza di tinte che ci vengono offerti da Bergonzi, il migliore il campo del cast. Non si capisce perché poi, sul piano della grafica, la Walhall abbia messo sullo scarno fascicoletto (porta solo i tracks e l’elenco del cast) la foto dell’Amara e non quella di Bergonzi che è il protagonista: sarebbe stato più logico, oltre che meritorio per il rendimento esecutivo del ‘nostro’ Carlo).
La Stratas degli inizi (sarà anche Annina in un’edizione di Traviata con la Moffo dello stesso anno e pubblicata dalla Walhall) è un’ottima Ines tanto che la sua voce, pur lontana nella ripresa, risulta essere di coefficiente maggiore per volume della stessa protagonista Amara. Ce ne avvediamo sempre anche nell’unica battuta della scena del chiostro. Ines di lusso, insomma, anche perché canta... un italiano scandito.
Wilderman non ha una voce eccelsa però è un buon Fernando, penalizzato all’inizio dalla lontananza. Gli altri (Ruiz, il messo e il vecchio zingaro) lasciano il tempo che trovano.
Pubblico statunitense molto sciovinista e maleducato che applaude a iosa ad ogni fine aria e ad ogni comparsa di cantante…
Morale della favola: un’esecuzione, con un direttore sostanzialmente funzionale, ma che poteva essere realizzata senz’altro meglio con scelte più oculate (e gli elementi non mancavano!) per quanto concerne il cast.
Luca Di Girolamo

Categoria: Dischi

 

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