Carmen
Aggiunto il 05 Marzo, 2011
Questo cofanetto costa 9 euro e 90 centesimi: una miseria se confrontato con altre edizioni di etichette assai più prestigiose; questo di solito è un aspetto che viene guardato con simpatia e, anzi, si tende a prediligere aprioristicamente un prodotto economico che, nell’immaginario collettivo, potrebbe essere caratterizzato da contenuti potenzialmente interessanti, specie se si considera che gli interpreti sono quasi tutti italiani. Premetto invece subito che quello che c’è dentro allo smilzo packaging non vale nemmeno una spesa così misera, ma l’acquisto potrebbe essere potenzialmente interessante per ragioni diverse: e cioè per capire lo stato attuale della realtà esecutiva italiana, di cui questa rappresentazione live è purtroppo uno spaccato molto affidabile.
Scelte editoriali di retroguardia; cantanti (il termine “interpreti” ci sembra un po’ esagerato, date le circostanze) vociferanti e generici; programmatica mancanza di una linea esegetica che sia una; allestimento chiassoso e coloratissimo (di regia ovviamente non si parla proprio): c’è insomma tutto il peggio del teatro italiano di oggi, quello che lamentiamo anche in piazze importanti come la Scala e che ci fanno scaricare addosso l’appellativo di “esterofili”, se non fosse che boiate del genere se ne vedono anche all’estero, vedi l’allestimento della stessa opera al Metropolitan di New York, e che abbiamo già stroncato in altra recensione.
Com’è noto, lo spettacolo di cui parliamo è un’Aida messa in scena all’Arena di Verona col solito allestimento fastoso di Zeffirelli. La scelta editoriale è – manco a dirlo – una Choudens-Guiraud; e fin qui niente di male se consideriamo che la fanno ancora in mezzo mondo, a cominciare dal già citato Metropolitan. Ma della Choudens-Guiraud, già limitativa e falsa di suo, viene per di più fornito un torso, una versione tagliata, con alcune scelte bizzarre fra cui posporre l’Entr’acte del quarto atto all’inizio della scena, che poi riprende subito dopo. Il significato è quello – immagino, non vedendo lo spettacolo – di trasformare l’Entr’acte in uno spettacolo di flamenco; almeno così sembra sentendo il rumore del sapateado e delle nacchere fuori ordinanza. Alla ripresa della scena, con le quadrillas dei picadores e dei banderilleros che entrano nella Plaza de Toros, il pubblico areniano ritma il refrain del “Toreador”, neanche fosse la Radetzky-March al Concerto di Capodanno, contribuendo così a peggiorare ulteriormente il gusto strapaesano di questa orrida rappresentazione.
Ora, sia chiaro: mi sono ben chiare le meccaniche esecutive di uno spettacolo areniano. Non è pensabile fare i dialoghi parlati perché non si sentirebbero; le voci devono avere determinate caratteristiche di volume e proiezione del suono; lo spettacolo deve essere adeguatamente fruibile da componenti le più eterogenee possibile; e, in ultima analisi, non è il posto dove fare filologia.
Però, premesso tutto questo, c’è da dire che all’Arena sono passati anche spettacoli memorabili: mi riferisco in particolare, per esempio, alla “Traviata” diretta da Eliahu Inbal nel 1970 con Renata Scotto che fa miracoli di miniaturizzazione intimistica, una delle più belle esecuzioni di quest’opera di cui si conservi memoria. Per cui, senza voler fraintendere l’idea stessa di canto all’aperto, ci deve essere alcuni criteri di base che permettano di conservare un livello di decoro minimo in uno spettacolo.
Ecco perché nulla al mondo giustifica la scelta di una primadonna che, di un personaggio così polisemico, in cui fior di cantanti hanno detto cose fondamentali (per stare alle ultime, Antonacci e Ewing), non ha assolutamente nulla fuorché qualche nota in alto. La voce ha un medium complessivamente gradevole sul registro alto mentre, in basso, apre terribilmente alla ricerca di sonorità poitrinées che, invece di essere sensuali, sono per lo più sguaiate e volgari. Nulla da dire sulla ben nota professionalità della D’Intino: è però cantante che non è nemmeno lontanamente paragonabile alle grandi protagoniste odierne. Basta sentire una sola frase detta, anzi: illuminata da Anna Caterina Antonacci e i termini del problema saranno ben chiari a tutti. Capisco la difficoltà della fonazione in un ambiente aperto e la peculiarità dell’edizione scelta che trasforma Carmen nella solita sagra strapaesana paraverista, ma qui non c’è una sola frase che sia meritevole di essere ricordata. Quanto a intenzioni interpretative, sembra di essere ritornati al peggio di Fiorenza Cossotto, ma senza nemmeno l’arroganza vocale che poteva magari superficialmente interessarne gli ammiratori più turibolari. Qualche risatazza, qualche risonanza uterina, il “Tiens!” del lancio delll’anello durante il duetto finale, latrato come una puttanaccia di periferia: se cercavate una Carmen che rinverdisse i fasti di Aurora Buades, questa è l’edizione che fa per voi. Si rimane solo un po’ sconcertati di fronte alla scelta della lingua francese: se c’era un’occasione per ripristinare la traduzione di Achille De Lauzières, era proprio questa.
Eppure, nonostante tutto, c’è chi riesce a essere peggio: mi riferisco al tenore. Marco Berti, sino a un po’ di anni fa, era una delle promesse italiane più rilevanti: bella e limpida voce di tenore lirico, svettante, dotata di squillo, metallo e naturale comunicativa. Quello che ha sempre fatto difetto a questo cantante è, viceversa, una vera dimensione di interprete, ed è quello che palesa anche in questa registrazione. Senza citare l’inarrivabile (per chiunque) Kaufmann, qualunque tenore – oggi – riesce a finire in pianissimo il duetto del primo atto con Micaela, qui per di più molto semplificato essendo ridotto a un misero torso; e qualunque tenore riesce a infondere un po’ di qualsivoglia sentimento nell’aria del fiore. Qui invece non c’è nulla: c’è l’enunciazione molto scolastica dell’aria, chiusa dal si bemolle a piena canna più tradizionale che si possa immaginare. E non parliamo del duetto finale, che è una palestra di urli tremendi a squarciagola in pieno stile “Di morte negli spasmi lo dirai!”; ma può darsi che sia colpa, anche in questo caso, del solito fraintendimento semantico correlato in modo stretto alla particolare scelta editoriale.
Assolutamente anonima come Micaela l’a me sino a quel momento sconosciuta Maria Luigia Borsi: la voce non è affatto banale per volume e armonici ma in questo ruolo, simpatico trampolino di lancio per cantanti giovani, generalmente io mi aspetto molto di più.
Quanto a Giorgio Surian, ha ormai i suoi begli anni (ha debuttato trent’anni fa) e mi sembra oltre i limiti per il testosteronico matador: non è quindi interprete credibile e, anche vocalmente, mostra spesso la corda pur nella sua parte così limitata dalla Choudens-Guiraud.
Fra i comprimari gli unico che si segnalino un po’ nello strapaese collettivo sono Previati e Camastra, ma non fanno particolare storia.
Sicché, l’unico elemento che finisce per emergere è il direttore Lü Jia: nonostante l’orribile scelta editoriale, nonostante i tagli supplementari, la sua interpretazione è pimpante, briosa, piena di una primitività che si intuisce sotto pelle e che meriterebbe di essere sviluppata meglio in altro contesto