Don Giovanni
Aggiunto il 18 Ottobre, 2010
Una doverosa premessa: adesso non c’è critico italiano che non si scateni ad esaltare il lavoro straordinario di regista operato da Guth nella rilettura del capolavoro mozartiano, ma crediamo di essere stati i primi, nel panorama nazionale, a segnalare l’importanza di quest’operazione. Ritengo quindi atto dovuto, oltre che un piacere personale, ringraziare l’amico Maugham che aveva visto lo spettacolo, che ce l’aveva segnalato e che aveva rimarcato gli aspetti eccezionali di un lavoro per il quale – una volta tanto – l’aggettivo “storico” non appare sprecato. Maugham è un grande estimatore di Claus Guth e lo segue meticolosamente in tutte le sue performances; ma credo di essere in diritto di avocare a questo sito il ruolo di divulgazione dell’importanza della regia teatrale nell’allestimento di uno spettacolo d’opera lirica. E se il discorso può sembrare scontato per i nostri lettori, è solo perché sono abituati a seguire le nostre chiacchiere sul tema che, per essi, è ormai pane quotidiano. Ma non è affatto la regola, almeno nel nostro Paese, ove si continua a ritenere che l’allestimento di un’opera lirica sia qualcosa di supplementare e, talvolta, un elemento fastidiosamente invadente, rispetto alla valorizzazione della Voce.
Se oggi possiamo orgogliosamente affermare di essere stati fra i primi, in Italia, a parlare di questo straordinario spettacolo, lo dobbiamo quindi all’entusiasmo del nostro Maugham – che ringrazio ancora pubblicamente – e alla tenacia con cui abbiamo perseguito le nostre convinzioni.
Esaurita la premessa, occupiamoci del prodotto.
Partiamo dalla versione scelta, abbastanza inconsueta (credo anzi che sia la prima volta che trova la strada del DVD, mentre in disco l’abbiamo già sentita altre volte): è quella viennese, senza la scena finale dopo la morte del protagonista, con l’inserimento del duetto fra Leporello e Zerlina “Per queste tue manine” al posto di “Ah pietà signori miei!” e con l’eliminazione della seconda aria di Ottavio, e questo è un peccato vero perché Polenzani è proprio bravo; rispetto alla versione scelta, viene mantenuta l’aria di Elvira “Mi tradì quell’alma ingrata”, e va complessivamente bene perché la Röschmann la canta e l’accenta con gusto appropriato pur se non indimenticabile; e giustissima invece la scelta di interrompere brutalmente l’opera con la morte di Giovanni, perché nella narrazione di Guth non c’è nessuno spazio per la consolazione o per la morale. E questa osservazione ci porta dritti al cuore del problema, e cioè la regia di Guth che, di conserva con la direzione serratissima di De Billy e la partecipazione di tutti i protagonisti, arriva a definire uno spettacolo micidiale, allucinante, a suo modo assolutamente perfetto. Come ricorderanno i nostri lettori, non abbiamo avuto esitazioni nel definire Jacobs il direttore che ha cambiato le regole del “racconto musicale” mozartiano; bene, pensiamo di poter affermare che Guth è il regista che più profondamente ha penetrato il teatro del Genio di Salisburgo. Nessuno l’ha fatto in modo così perfetto, né dei passati, né dei recenti (e penso al pur interessante Kusej).
Com’è la vicenda di Don Giovanni narrata da Guth? Premetto che sarà difficile raccontare uno spettacolo così complesso senza tralasciare qualcosa ma, se volete, questa è la dimostrazione della differenza fra un assemblaggio di elementi scenici oleografici tenute insieme dalle solite quattro idee sgangherate (la “Carmen” allestita da Richard Eyre al Met di cui parlavamo recentemente su queste stesse pagine ce ne offre un ottimo esempio) e un vero spettacolo che persegue una sua idea ben precisa che rimane coerentemente attaccata alla psicologia dei personaggi.
Quante volte ci siamo chiesti chi sia veramente Don Giovanni! Perché fa quello che fa?
È annoiato? È inevitabilmente portato alla seduzione? È un eroe? È un personaggio negativo? È un archetipo che passa indenne attraverso tutte le epoche arrivando indenne ai nostri tempi?
È evidente che anche Guth si sia posto le stesse domande; ma è altrettanto evidente di come le risposte è arrivato siano completamente diverse da quello cui siamo abituati.
Questa lettura del mito di Don Giovanni è una storia di solitudine e di disadattati, che si svolge in un bosco scuro su una piattaforma circolare che cambia angolazione offrendo vari punti di vista, ma di fatto senza cambiare la scenografia. Siamo nel regno dell’inespresso, del non detto; gli uomini vi si aggirano smarriti, qualche volta usano le torce quasi come un simbolo, ma sono divorati da una vita feroce che non li accetta. Il primo a esserne divorato è proprio Giovanni, l’ultima è Donna Anna che, alla fine del suo “Non mi dir” si avvierà nel bosco per uccidersi senza che Ottavio faccia nulla per fermarla.
Il dramma inizia con Anna che insegue furiosamente Giovanni nel buio fra gli alberi. È una furia vendicativa scatenata? Lo vuole uccidere? Macché: vuole proseguire quello che hanno iniziato. Non è la prima volta che un regista (per non parlare degli esegeti musicali) sostiene l’ipotesi che Anna in realtà sia attratta dal Burlador – l’aveva sostenuto per esempio Hildesheimer – ma nessuno ce l’aveva fatto ancora vedere con questa intensità feroce. Sono due disperati che si sono trovati in un mondo di solitudine. Anna ha il canto quasi espressionista e i tratti fisici di Annette Dasch e sembra una anti-diva degli hard-boyled degli Anni Cinquanta: ve le ricordate? Non erano le pupe dei gangster, erano quelle donne potenzialmente normali che però si trovano invischiate in trame più grandi di loro, perché magari cercavano solo un’evasione dalla banalità di una vita che non lasciava alternative. Le ultime eroine di questo modello femminile ce le ha raccontate Ridley Scott in “Thelma & Louise” e questa Anna, come loro, finisce quando vede cadere il mondo in cui stava cominciando finalmente a vivere.
La storia di questo “Don Giovanni” raccontata da Guth è quella di un’ossessione che Giovanni ingenera nelle donne, soprattutto Anna ma anche Elvira. Anna se lo trova davanti alla macchina mentre il povero Ottavio (straordinario, immenso Polenzani) canta il suo “Dalla sua pace”: lei è chiusa in macchina, si accende una sigaretta, le compare davanti Giovanni che la guarda silenzioso, i loro sguardi parlano e dicono tutto ciò che le parole non potrebbero esprimere, mentre lui intinge le dita nel suo stesso sangue e disegna un cuore sul parabrezza. Si capisce benissimo perché alla fine Anna si uccida: non c’è futuro per lei dopo l’inevitabile morte di Giovanni; e forse non c’è futuro per nessun altro, la vicenda di tutti finisce contemporaneamente alla morte del protagonista.
Giovanni le ama e le capisce tutte. In fondo, capisce anche Elvira che se lo ritrova accanto quando è sdraiata affranta, disperata, sulle panchine della fermata del bus mentre Leporello canta l’aria del catalogo come un’improvvisazione; lui le si siede accanto e le accarezza il volto, in un gesto di tenerezza e comprensione infinite. Come si fa a non amare un uomo così, che sembra riassumere in sé tutti gli uomini del mondo?
Giovanni entra come una furia nelle vite degli altri che lo circondano, soprattutto – come abbiamo detto – le donne. Le donne sono travolte dalla fame di vita di questo, più che uomo, archetipo.
Il Commendatore non capisce e interrompe un accoppiamento furioso, pazzo e disperato (come lo era, sempre nel già citato film-capolavoro di Ridley Scott, quello di Geena Davis con il ripugnante personaggio interpretato da Brad Pitt) fortemente voluto proprio da sua figlia. Giovanni lo tramortisce (lo uccide?...siamo proprio sicuri?...), come da copione, ma il vecchio gli spara in pancia iniziando – lui sì – a ucciderlo proprio da quel momento. E Giovanni sa che deve morire, perde continuamente sangue, ma non tantissimo: la vita gli esce poco per volta, nel corso di una notte pazza e disperata, in cui cercherà di bersi tutta quella poca vita che ancora gli rimane. E tutte le donne si intridono le mani e i vestiti di quel sangue che continua a bagnare i vestiti del protagonista. Quel sangue che bagnerà la veste nuziale di Zerlina, forse deflorata o forse no da Giovanni (il regista non chiarisce il mistero). Quel sangue che bagnerà la mano con cui Anna accarezzerà Ottavio prima di andare ad uccidersi; e il povero Ottavio, tanto simile a Amos Hart di “Chicago” non capisce, poveretto, che il suo eroismo di tutti i giorni non c’entra nulla con questa vicenda, che è la storia di una miseria senza redenzione, che è una storia nata nel buio e che nel buio finirà.
Forse, come dicevamo, in realtà il Commendatore non è nemmeno morto; ha una benda sulla testa dove era arrivata la legnata di Giovanni; magari parlandosi si sarebbe potuti arrivare ad una spiegazione, ma nessuno parla in questo dramma dove tutti si aggirano annebbiati da una crisi della coscienza che spesso assume l’aspetto dell’alcol, o della droga.
Si potrebbero dire ancora tante cose di questo meraviglioso spettacolo: dai tic di Erwin Schrott, indimenticabile Leporello balbuziente e tossicodipendente; alla serenata che Giovanni canta con sguardo allucinato, perso nel vuoto, quasi sotto effetto di una droga; alla danza folle di “Fin ch’han del vino”, che il protagonista intona stappando una lattina di birra e versandosela in testa (un momento teatrale di una violenza indicibile); alla sensualità contenuta a mala pena di Elvira, l’unica che cerca di mantenere un contatto con la normalità, ma che è ben contenta di lasciarsi andare quando crede all’inganno di Leporello. Tanti dettagli, eppure saremmo ancora alla superficie di una delle riletture più magiche ed insieme crudeli non solo del capolavoro mozartiano, ma anche del teatro musicale in senso lato.
Rispetto alle “Nozze di Figaro” proposte a Salisburgo, il risultato complessivo è molto più sconfortante e pessimistico, ma la resa teatrale è non di poco superiore: Guth non è probabilmente mai entrato così profondamente nel cuore di un’umanità così devastata dalla solitudine, dall’alienazione, dalla disperazione, dal male di vivere. L’unico aspetto che forse disturba un po’ è il continuo riferimento – davvero troppo didascalico – alla droga, come se fosse la spiegazione di tutto il male di vivere. Ma è qualcosa che riusciamo a perdonargli, in fondo, di fronte ad una lettura dal respiro tanto potente.
Va detto che Guth non sarebbe potuto arrivare a un risultato di questo genere se non ci fosse stato un parterre musicale come quello presente in questo spettacolo, e a cominciare dalla direzione di De Billy che, non sicuramente in testa all’élite di direttori intellettuali à la page, si carica sulle spalle i Wiener facendoli suonare come una compagine barocca, con levità di tocco ed estrema velocità di esecuzione. Il ritmo impresso da De Billy è indiavolato come ci si aspetta che sia per stare dietro alla folle notte di questo protagonista. Ottimo l’accompagnamento al canto, particolarmente raffinato nel momento più bello di tutta l’opera, quello di “Ah taci ingiusto core”.
Compagnia di canto, dicevamo, di valore complessivamente molto alto, ma con decisa prevalenza del settore maschile dominato da Giovanni e Leporello.
Eccezionale Maltman! Il canto superbo, lievemente acidulo da autentico baritono colorista britannico; la recitazione aggressiva e, allo stesso tempo, miracolosamente sobria in un equilibrio che richiama un Anthony Hopkins più giovane, ne fanno un protagonista ideale. Nato nel 1970, allievo di Bruscantini – da cui ha ereditato ironia e leggerezza nel porgere la frase – e di Hampson, da cui invece ha mutuato il gusto esasperato per colori, nuances e presenza scenica, Maltman è un Don Giovanni perfetto in modo inquietante. Difficile pensare di poter cucire questo spettacolo addosso a qualsiasi altro protagonista. Il canto è tipico dei Don Giovanni di oggi, quelli passati attraverso la revisione dei grandi esegeti del Barocco: non più, quindi, i grandi bassi dotati di vocione altisonante (Pinza, Siepi, Ghiaurov), ma piuttosto baritoni di voce molto chiara, con estensione quasi tenorile, il che è molto “filologico” e ci spiega la tessitura di brani come “Fin ch’han del vino” o “Deh vieni alla finestra”. Inoltre, scarsa concessione al legato di una scuola che – più che vecchia – oggi appare francamente decrepita, uso esasperato dei colori in tutte le loro nuances, sfruttamento diabolico di tutte le potenzialità offerte dai recitativi, mai apparsi così teatrali e forse addirittura cinematografici: così, tanto per stare a realizzazioni recenti, sono (in parte) anche il già citato Hampson e, più recentemente, Johannes Weisser, il grandioso protagonista dell’incisione discografica di Jacobs. Con questa interpretazione di Christopher Maltman possiamo dire di aver trovato finalmente la chiave di lettura dei nostri tempi per un personaggio di cui credevamo di conoscere già tutto. Sottolinerei infine la fisicità con cui Maltman entra letteralmente nel personaggio che interpreta: raramente mi era capitato – se non forse in certe personificazioni di Terfel – di vedere una presenza fisica talmente soggiogante da giganteggiare sul palcoscenico.
Al suo fianco, l’incredibile Erwin Schrott dipinge un Leporello con cui tutti, d’ora in avanti, dovranno confrontarsi. Indimenticabile coacervo di tic da vecchio tossico, di quelli d’una volta di cui pensavamo aver perso la memoria ma che tutti quelli che hanno la mia età (e, magari, fanno il mio mestiere) ricordano bene: l’eroinomane, con i tipici rallentamenti psico-motori, con gli atteggiamenti maniacalmente bipolari e, in più, la balbuzie, che Maltman/Giovanni imita (in modo impagabile) durante il recitativo che precede “Metà di voi qua vadano”. Ma Schrott è anche un signor cantante, che trova il suo terreno d’elezione più in questo repertorio che non nel verismo di “Carmen”. Non è un cantante per tutti gli usi, probabilmente è più un bass-baritono che un vero basso, ma in una parte come questa, seguito minuziosamente da un regista che lavora sul suo personaggio con un approfondimento mostruoso che esce dal solito cliché del servitore scaltro della commedia dell’arte, figura benissimo. Eccellente davvero il canto: l’aria del catalogo è ricca di colori e di nuances, così come di notevolissimo livello è tutto il canto di conversazione.
Appena più ordinario Alex Esposito, che comunque riesce a trovare accenti di sincera frustrazione (ed è un altro personaggio su cui si concentra molto il lavoro di Guth: basterebbe questo per definire l’altissimo livello del lavoro del regista), mentre invece c’è ancora tantissimo carisma nel canto usurato di Kotcherga.
Di Matthew Polenzani abbiamo già in parte detto. Il timbro molto chiaro e il legato di altissima classe lo portano un po’ fuori dall’area semantica di questa rappresentazione, ma è un signor cantante e c’è solo da rammaricarsi che la versione scelta lo privi della sua seconda aria, specie considerando che Elvira dispone della sua “Mi tradì quell’alma ingrata”; ma tant’è, bisogna rassegnarsi (è in questi casi che si rimpiange la comodità di un’incisione in studio che permette di aggiungere in appendice l’aria che non trova posto nell’edizione scelta).
Il settore femminile appare complessivamente alquanto meno singolare rispetto a quello maschile, ma è comunque più che potabile.
Fra le donne, la più ordinaria è – tutto sommato – la pur brava Ekaterina Siurina: canta e recita bene, ma in un contesto così tanto caratterizzato come questo sfuma un po’ sullo sfondo.
Molto buona Dorothea Röschmann, ormai interprete mozartiana di rango che probabilmente ha anche un’intesa speciale con Guth, se consideriamo anche la sua eccellente caratterizzazione della Contessa nelle “Nozze di Figaro”. La sua Elvira palpita di una femminilità offesa ma rigogliosa. Non è una furia vendicatrice: è una moglie, una donna benestante qualunque molto ordinata che è stata travolta dal ciclone Don Giovanni e che cerca non solo di riconquistare il suo uomo mettendo in campo tutte le arti che ha a disposizione, ma anche di ritrovare se stessa: perderà su entrambi i fronti.
Infine Annette Dasch, straordinario contraltare a questo Don Giovanni: visivamente è fenomenale. Berlinese, trentaduenne all’epoca di questa rappresentazione, forte di un repertorio che va da Haydn a Wagner passando attraverso la Genoveva di Schumann, trova probabilmente qui il ruolo che correrà il rischio di segnare la sua carriera come la bimba de “L’esorcista” per Linda Blair. La compenetrazione è talmente completa da risultare persino inquietante; il canto è preciso, ma non francamente inappuntabile; la caratterizzazione però è complessivamente indimenticabile, riesce a far dimenticare le mende vocali: mai vista una Donn’Anna così.
In ultimo, eccellente la regia televisiva di Brian Large: non era per niente facile riuscire a rendere apprezzabile tutta la complessità del lavoro di Guth.
Grande spettacolo, davvero