Carmen
Aggiunto il 11 Ottobre, 2010
Non volevo crederci.
Quando ho visto Moralès attaccare il recitativo con José ho pensato ad una buffa interpolazione, una di quelle scelte bislacche che i direttori amano fare per personalizzare la “loro” Carmen. Poi c’è il recitativo José-Zuniga, che mi conferma il sospetto. E quando, nel coro che precede l’ingresso di Carmen, come al solito gli uomini stanno zitti, ho la conferma definitiva: signore e signori, al Metropolitan di New York, uno dei più grandi teatri del mondo, nell’anno di grazia 2010, a 46 anni dalla revisione Oeser, a 10 dall’edizione critica di Didion, per rappresentare Carmen si utilizza ancora la mutilata e orrenda versione Choudens, coi bruttissimi recitativi di Guiraud.
Certo, per giustificare l’idiozia vi racconteranno le solite panzane sulle difficoltà di mettere insieme al Met una Carmen con i dialoghi (ma perché, poi?); e che, in fondo, la Choudens-Guiraud non è poi tanto male e che dirne peste e corna denota una mentalità ristretta, tipica di chi vuol fare il progressista a tutti i costi; che è un portato tipico dei nostri anni quello di volere a tutti i patti la partitura autografa dell’autore. Va bene tutto, a patto di non alterare lo spirito con cui l’opera è stata pensata: e la Choudens-Guiraud è una versione vecchia, pasticciata, che tradisce in pieno lo stile, portando l’opera in un milieu culturale che non le appartiene, e giustificando tutte le derive che ne hanno fatto per anni non il capolavoro di Bizet, bensì la traduzione francese di un qualunque dramma verista italiano. Magari il fatto di mettere in scena un obbrobrio del genere è solo la risposta alle esigenze del pubblico: si sa, anche al Met bisogna non solo cassetta, ma anche audience, grazie allo streaming su internet. Può essere, i gusti sono gusti: ma allora non si mette insieme un DVD HD che abbia la pretesa di rivoluzionare la discografia di un titolo in cui – tanto per stare proprio alla sola Choudens – ce n’è veramente per tutti i gusti.
Certo, si dirà, c’è la Garanča. Giusto: ma è il classico fiore nel letamaio. E siccome, fortunatamente, non sarà l’ultima volta che canta questa parte, meglio sarebbe stato anche per la DGG aspettare occasione più ortodossa per fissarne l’interpretazione. E qui, di ortodosso, c’è solo il pattume polveroso che può accontentare solo lo spettatore neofita, o quello ipertradizionalista che vuole vedere i ballerini di flamenco, il torero con il regolare traje de luces, il fiore in bocca e Carmen con le mani sui fianchi. Se è questo che si cerca, qua ce n’è a catafascio. Se invece si cerca qualcosa di diverso, anche solo banalmente la prestazione artistica che risollevi le sorti dello spettacolo, c’è il deserto.
È incredibile che in un teatro come il Met veda la luce una produzione di questo genere.
C’è la piattaforma rotante: oh, finalmente un’idea nuova! Nella prima scena Moralès e un laido soldato palpano con aria lasciva la polposa Micaela. Nella scena del suo ingresso, Carmen si bagna tette e gambe e, durante l’Habanera, si mette a gambe aperte. Nella Seguidilla Carmen si lecca il labbro superiore e poi si fa (quasi) montare dall’infoiatissimo – ma si può capire: la Garanča è un gran bel pezzo di femmina – e smarrito José. Nel secondo atto i ballerini ballano il flamenco, ma anche la Garanča accenna qualche passo di danza. Escamillo fortunatamente non salta sul tavolo come la maggior parte dei suoi colleghi, ma non sa cosa fare durante la sua “presentazione”, e si capisce benissimo. Micaela recita la sua aria sotto forma di preghiera – davvero un altro tocco di originalità! – e alla fine si aggrappa disperatamente a José per strapparlo a Carmen; almeno a Milano Emma Dante aveva trasformato Micaela nella mamma morente, il che non sarà stato un gran colpo di teatro ma era un’idea, santa pace! Un’idea! La sfilata del quarto atto così come ce la propone Eyre l’abbiamo vista mille altre volte; c’è persino il prete che benedice il torero che ha a braccetto Carmencita con il velo sulla cofana col pettine nei capelli (come Grace Bumbry nel vecchio film di Karajan!). Carmen sputa come un lama addosso a tutti gli uomini mentre li guarda con occhio che più torbido e peccaminoso non potrebbe essere; gli uomini – José, Escamillo e Zuniga – sono tutti talmente arrapati da essere letteralmente pronti alla monta.
Insomma, una non-regia disastrosa, vergognosa, improponibile. Va bene solo finché c’è in scena la Garanča, che è giovane ma ha un ottimo istinto di palcoscenico e che, opportunamente guidata, potrebbe dare grosse soddisfazioni; va abbastanza bene con Tahu-Rhodes, un altro che ha presenza (e voce, a dirla tutta); va così così con la Frittoli; va malissimo con Alagna, che è troppo preoccupato per la precarietà della propria emissione vocale per poter prescindere da una solida guida registica.
Non se ne può davvero più di queste non-regie che non perseguono nessun disegno, nessuna idea, nulla: vuoto pneumatico assoluto. La polvere del vecchio Met si deposita sui succedanei più tecnologici dei vecchi fondali dipinti. Alla fine non c’è nulla: non pathos, non allegria, nessuna scintilla, nessuna emozione, se non quel poco che riesce a riservare la Garanča. Tristezza e noia mortale; e Dio solo sa quanto ci voglia per far annoiare il pubblico con Carmen, ma Eyre ci riesce.
Lo spettacolo si chiude con una rotazione della piattaforma e l’inquadratura del popolo intorno a Escamillo che ha fiocinato il toro di cartapesta su uno sfondo rosso sangue. Clap clap.
Quanto ai cantanti, decisamente non si può dire che la compagnia sia un modello di riferimento.
Alagna, per esempio, è un disastro. La voce, quella bellissima voce che ci aveva dato l’illusione una decina d’anni fa della rinascita della voce di tenore di altro genere, adesso è uno straccio. La tenuta è disastrosa, il fiato è praticamente una scommessa, gli acuti cominciano a ballare già dal la in su; tenta di smorzare il si bemolle del Fiore, ma è un alitino che non si può ascoltare (niente a che vedere con quello che fa sentire Kaufmann); l’unico momento in cui dà ancora l’idea di essere stato un grande cantante è sul duetto finale in cui, trascinato dalla partner, si concede una performance al calor bianco. Ma per il resto è un disastro, ormai davvero improponibile in una produzione anche solo mediamente ambiziosa.
La Frittoli è brava, come sempre, ma è lontana anni luce dal suo personaggio, e tanto per cominciare per ovvie ragioni anagrafiche: è sempre una gran bella donna, ma ha più di 40 anni e, per ben portati che siano, non c’è nulla di lei che evochi l’idea di una fanciulla in fiore. Il suo canto è bello, per carità, ma Micaela potrebbe – e dovrebbe – essere una vetrina per lanciare giovani cantanti, com’è accaduto per esempio a Mirella Freni o Alida Ferrarini.
Tahu Rhodes ha voce e physique du rôle, ma l’edizione Choudens ne limita tantissimo le potenzialità espressive. È brillante, non si potrebbe immaginare un Escamillo più fico di così, sparge talmente tanto testosterone che manca giusto che esponga i genitali e marchi il territorio con la propria urina intorno a Carmen: forse si potrebbe osare qualcosa di più, magari recuperando quel lato fatuo e sornione che, per esempio, evidenziava David Holloway a Glyndenbourne con Haitink nell’eccellente spettacolo di Peter Hall, un vero regista (tanto per cambiare).
Bravo ma prevedibile anche lo Zuniga di Keith Miller, un altro che sparge ormoni maschili a pienissime mani; e bravo anche Patriarco, ma di Dancairi bravi ce n’è in ogni Carmen, quindi la cosa non ci impressiona più che tanto.
Rimane la Garanča, della quale abbiamo già parzialmente detto, e che poi sarebbe l’unica vera ragione per guardare ed ascoltare questi due DVD. Elīna ha 34 anni ed è già nel pieno della propria maturità artistica: la formazione belcantistica le permette di dare una dimensione intrigante alla compitazione della propria parte, proiettandola in un universo che, almeno formalmente, sarebbe quello giusto. Avesse avuto dietro di sé la mano registica giusta, sarebbe stato tutto un altro paio di maniche; così, purtroppo, non ci siamo ancora.
Vocalmente è una Carmen spettacolare: timbro fondo, scuro, sensualissimo; voce perfettamente proiettata; rispetto meticoloso dei segni d’espressione e degli abbellimenti. Da un punto di vista interpretativo, invece, siamo un bel po’ di passi indietro rispetto non solo a Maria Ewing – che continua a giganteggiare sullo sfondo, as time goes by - ma anche rispetto alle più recenti Antonacci o Kasarova. Il suo essere Carmen si riduce a ottima emissione vocale e atteggiamenti da bagascia di periferia: sguardo assassino, gambe aperte, sputo facile. Peccato: di tutto questa baracco nata è l’unico aspetto degno di nota. Ci sono tutti i presupposti perché la Garanča diventi una delle due-tre Carmen di riferimento per i prossimi dieci anni, ma l’attendiamo decisamente in altro contesto.
Il direttore ha il senso di quello che racconta, e cerca di farlo nel modo più pimpante possibile (anche se con rallentamenti vistosi a vantaggio di Alagna). Ci sembra molto promettente, ma ci lascia con un grosso dubbio: se lui ha avuto parte nella scellerata decisione di proporre una Choudens, merita anch’egli una dose non indifferente di frustate; diversamente, lo attendiamo a prova più interessante