Mercoledì, 12 Marzo 2025

Tosca

Aggiunto il 12 Agosto, 2010


GIACOMO PUCCINI
LA BOHÈME

• Tosca KATIA RICCIARELLI
• Cavaradossi JOSÉ CARRERAS
• Scarpia RUGGERO RAIMONDI
• Angelotti GOTTFRIED HORNIK
• Il sagrestano FERNANDO CORENA
• Spoletta HEINZ ZEDNIK
• Sciarrone VICTOR VON HALEM
• Un carceriere VICTOR VON HALEM
• Un pastore WOLFGANG BÜNTEN


Chor der Deutschen Oper Berlin
Schöneberger Sängerknaben
Chorus Master: Walther Hagen-Groll

Berliner Philharmoniker
HERBERT VON KARAJAN

Luogo e data di registrazione: non indicato, 1980
Ed. discografica: DGG, 2 CD (ancora) a prezzo pieno

Note tecniche sulla registrazione: ottima spaziatura, però notevole predominanza del piano orchestrale sulle voci

Pregi: tutto e solo Karajan, nel bene come nel male

Difetti: soprattutto Carreras

Valutazione finale: images/giudizi/discreto-buono.png

Come si può vedere, alle voci “pregi” e “difetti” compaiono le stesse valutazioni che avevamo espresso a commento della registrazione del 1962: come dire, cambiano gli addendi, ma la somma non cambia, ed ecco perché possiamo affermare che nella sostanza la “Tosca” di Karajan rimane uguale a se stessa anche a 18 anni di distanza.
Sì, va bene: siamo in pieno Karajan “revisionista” e, conseguentemente, intimista; le voci scelte sono “piccole” come ormai d’abitudine; l’orchestra è sempre più lussureggiante e ricca di colori degni di Tiziano o di un Tiepolo; ma questo è Karajan e, come avrebbe detto il Marchese Onofrio del Grillo, lui è lui e gli altri sono…sì, insomma, avete capito.
Quindi, ancora una volta Roma al centro del discorso orchestrale: una Roma pigra, indolente, colorata e chiassosa, eppure calda, umida, silenziosa come una notte d’estate, sensuale come quei giardini cui fa riferimento Floria nel duetto con Mario, quando cerca di convincerlo a mollare il ritratto dell’Attavanti per una sana notte di sesso, cui lui rinuncia volentieri per il prevalere delle ragioni politiche.
Ed è ancora Roma che prevale nel “Te Deum” più chiassoso ed orgiastico mai registrato su disco. Ed è sempre Roma ad imporre le proprie ragioni nel secondo atto con l’atmosfera calda ed opprimente che si respira continuamente a Palazzo Farnese. Ed è Roma che accoglie maternamente le sofferenze e il pentimento tardivo di Mario con la scena dell’alba sulla città, e le campane che ne ritmano il lento e torpido risveglio.
Quindi, apparentemente nulla di nuovo quanto a colori e scelte rispetto all’edizione del 1962; quanto a mera bellezza di suono, i Berliner valgono i Wiener, e l’una come l’altra sono compagini eccellenti per la piena comprensione dei preziosismi strumentali profusi a piene mani dal compositore nella partitura.
Ciò che peggiora è la rumoristica: come se Karajan volesse infilare una nota trucibalda in un’opera che ne ha già abbastanza di suo. Tonfi, colpi di cannone, salve assordanti di fucile, per tacere dei botti (non saprei come altro definirli) che ritmano un “Te Deum” davvero chiassoso oltre ai limiti di sopportazione, e non si capisce davvero perché vista la scelta di un Raimondi che, teoricamente, cercherebbe di miniare e sussurrare la sua parte.
Ciò che peggiora, conseguentemente, è anche il rapporto voci-orchestra, con una netta e sgradevole predominanza della seconda sulle prime, e Dio solo sa se queste voci abbiano bisogno di un trattamento del genere.
Ciò che peggiora, infine, è la tipologia vocale; ma questa non vuole essere la solita tirata contro la Ricciarelli (che anzi qui se la cava complessivamente più che bene), o contro il solito Raimondi babbau (celebre definizione S&S), ma è la logica constatazione che il Karajan degli Anni Ottanta rende doveroso omaggio al vocalismo del periodo. Credo insomma che il tanto decantato “intimismo” del Karajan autorevisionista non sia altro che il normale utilizzo di prodotti che funzionano bene nel mercato di quel momento, con un pizzico di originalità da ricondurre propriamente a lui.
Per esempio: che Katia Ricciarelli, cantante ambiziosa e intelligente, oltre che dotata di voce di strepitosa bellezza timbrica, non potesse rimanere confinata ai ruoli angelicati cui la destinavano le proprie caratteristiche, era un dato di fatto lampante; che potesse arrivare ad incidere Tosca e addirittura Turandot (nel title-rôle) era qualcosa di cui poteva farsi garante solo un personaggio egocentrico come Karajan, esempio non unico di questa particolare tendenza ma in grado di farlo con più autorità rispetto agli epigoni.
Ma che Tosca è la Ricciarelli? Niente male. A parte alcune forzature (come il do della “Lama”) e a parte l’idea di avere un’innamorata più che una Divastra. La voce è salda e ancora ben sostenuta da una tecnica più che accettabile per quello che le viene richiesto; l’intesa col direttore (che ne ama la bellezza timbrica, questo è evidente) è eccellente, anche se nessuno può dire che sia una di quelle liaisons destinate a dare frutti memorabili; l’intesa con i colleghi è anch’essa notevole, ma eviterei il gossip da strapazzo ricordando che forse erano ancora gli anni dell’unione con Carreras.
Ciò che colpisce ancora oggi all’ascolto è la bella differenziazione di tutti gli stati d’animo di Floria: dalla donna sospettosa, all’amante appassionata, alla belva dubbiosa nel colloquio del primo atto con Scarpia (sprazzo di teatro ottimamente riuscito grazie alla perfetta intesa con Raimondi e Karajan); e di nuovo l’angoscia del secondo atto, la rabbia folle, la gelida determinazione nell’omicidio; e infine la tenerezza infantile del terzo atto, sino alla disillusione tragica ed amara di fronte all’ennesimo inganno di Scarpia. Se cerchiamo in tutta la discografia, troveremo probabilmente almeno una decina di Tosche meglio cantate, ma ben poche che posseggano una simile varietà di accenti, esposti per di più con notevole naturalezza. Quanto alle ragioni nude e crude del canto – che sono quelle che soddisfano i vociologi – siamo ai limiti per un’operazione del genere, per di più fattibile solo nel contesto di una registrazione in studio in cui tutto è possibile; né questo non sia considerato un limite giacché, come ho detto un sacco di volte, “The dark side of the moon” dei Pink Floyd, giudicato a torto o a ragione il miglior disco di ogni tempo, è una registrazione di studio. I passaggi elegiaci, affettuosi o di conversazione sono assolutamente eccellenti; quelli arroventati mettono invece in crisi l’organizzazione vocale della cantante rodigina, considerando poi la preponderanza dell’orchestra che, se voleva mimare una prospettiva teatrale, ha ottenuto lo scopo di dimostrare come la Tosca di Katia non fosse riproducibile in teatro. Il “Vissi d’arte” è bello, ma superficiale; la scena dell’omicidio di Scarpia è invece è interessante per il tono sorridente che Katia imposta nel pronunciare le parole “Questo è il bacio di Tosca”. Del do della “Lama” – e di tutti gli acuti in genere – abbiamo già sostanzialmente detto: non sono il meglio di questa protagonista che si fa apprezzare su altri fronti.
Al suo fianco Carreras è non meno fragile localmente, ma appare assai più carente di personalità. Per uno come lui che si proponeva come l’erede delle mezze voci di Miguel Fleta o di Giuseppe Di Stefano, non ce n’è praticamente nessuna; in compenso la vocalizzazione è davvero difficile, gli acuti sono impiccati quasi tutti, l’ “E lucevan le stelle” è compitato con un’indifferenza espressiva siderale: non male per un tenore delle sue possibilità. Si salva solo il tono intimo e affettuoso di “O dolci mani” e qualche bella intenzione del duetto iniziale, ma è troppo poco per memorizzare una prova davvero dimenticabile; considerate le potenzialità del Carreras di quegli anni, c’è davvero da dolersene. Peccato.
Questa è invece la prima registrazione del ruolo di Scarpia di Ruggero Raimondi, che ne avrebbe fatta – da allora in avanti – una propria personalissima icona. Qui siamo ancora a livello di laboratorio, e nemmeno dei migliori, purtroppo, e non per colpa sua, bensì di Karajan che – davanti a Scarpia – carica l’orchestra come per esempio nel già citato Te Deum. Peccato, perché – per una volta – l’interprete di questo ruolo geniale sembra voler uscire dai “gobbismi” di bassa lega per trovare accenti nuovi, sottili ed inquietanti. Si pensi al già citato perfetto canto di conversazione in “Tosca divina la mano mia la vostra aspetta” in cui Raimondi riesce ad essere abbottonatissimo, evitando di scivolare nel tono lascivo usato da nove interpreti su dieci – in fin dei conti sta sempre conducendo un’indagine importante – ma mantenendo un contegno fatuo e quasi salottiero. Il “Te Deum” sarebbe molto bello per il modo in cui riesce a rendere il soliloquio riflessivo e pericoloso, ma l’effetto viene smorzato – e di molto – dal rumore di grancassa che Karajan e il producer vi infilano proditoriamente. Ci piace poi tutto il secondo atto, anche se ogni tanto Raimondi sente il bisogno di alzare la voce (quel “Ma fatelo tacere!” ragliato in modo stentoreo è proprio brutto: sarebbe stato meglio un gelido sussurro!), ma alla fine si rimane abbastanza soddisfatti: non è ancora lo Scarpia con cui Raimondi farà impazzire intere platee di appassionate ammiratrici, ma il progetto è già più che avanzato.
Fra i comprimari rimane – rispetto all’edizione del 1962 – il glorioso Fernando Corena, ed è cosa buona e giusta perché il suo Sagrestano è un’icona popolare straordinaria; ma eccellente è anche Zednik e complessivamente buoni tutti gli altri

Categoria: Dischi

 

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