Venerdì, 05 Luglio 2024

Tosca

Aggiunto il 03 Giugno, 2010


GIACOMO PUCCINI
TOSCA

• Tosca RADMILA BAKOCEVIC
• Cavaradossi FRANCO CORELLI
• Scarpia SESTO BRUSCANTINI
• Angelotti JOSE’ OLIVEIRA LOPES
• Il sagrestano GIORGIO GIORGETTI
• Spoletta FRANCO RICCIARDI
• Sciarrone ANTONIO SARAIVA
• Un carceriere JOAO VELOSO
• Un pastore MARIA CRISTINA DE CASTRO


Coro del Teatro National Sao Carlos - Lisbona
Chorus Master: non indicato

Orchestra del Teatro National Sao Carlos - Lisbona
OLIVERO DE FABRITIIS

Luogo e data di registrazione: Lisbona, live 18 marzo 1973
Ed. discografica: Living Stage, 2 CD

Note tecniche sulla registrazione: suono alterno

Pregi: il grandissimo Scarpia di Bruscantini, un buon Corelli (ma meno di altre volte) e Ricciardi

Difetti: il resto del cast a partire dalla pessima direzione

Valutazione finale: images/giudizi/sufficiente.png

Appare quanto meno singolare che, in una copertina di Tosca, compaia come primo nome quello dell’interprete del personaggio ‘minore’ del trittico protagonistico. Se si va a vedere nell’economia della vicenda, Floria Tosca la bella e passionale cantante romana e Vitellio Scarpia il cattivone di turno, perfido ed ironico quanto basta, fanno da padrone in una vicenda in cui il povero Mario Cavaradossi ha un ruolo tutto sommato relativo. Resta la musica che accompagna questo infelice pittore dalle idee illuministe e ciò perché Puccini è il gigante del ‘900 musicale italiano che conosciamo, ma schierando un Cavaradossi di tal fatta ed uno Scarpia interpretato da un cantante sommamente intelligente e versatile quale era Bruscantini è ovvio che, quanto meno, i dirigenti del San Carlo di Lisbona nel 1973 avrebbero dovuto pensare a ben altra protagonista che poteva formare un trittico alla pari, equilibrato, insomma. Non credo che, in quegli anni ’70, ci fosse carenza di primedonne, soprattutto perché questa edizione mostra la novità di un interprete del teatro comico cimentarsi con una delle più drammatiche e pesanti parti per baritono. A questa novità si sarebbe potuto senz’altro affiancare un nome di cartello nel campo sopranile, visto che il tenore (e che tenore!) c’era.
Qualche parola va spesa sulla Bakocevic per rinfrescare un po’ la memoria e vederne i tratti del repertorio: era serba ed ha avuto una carriera cronologicamente non molto estesa (debutto a Trieste nel 1967 in Olga de La Cameriera di Pskov di Rimskij-Korsakov per concludere con Turandot di Puccini nel 1982 alla Deutsche Oper am Rhein) svolta soprattutto nei teatri dell’Europa centrale (Vienna, Berlino e Parigi) senza tralasciare gli USA (S. Francisco, New York e Philadelphia) e l’Italia: è del 1972 il suo debutto Teatro alla Scala debutto il 31 dicembre 1972 in Norma sotto la direzione di G. Gavazzeni, con la Cossotto, G. Raimondi e Vinco. Ricordo di averla udita qui a Roma ne La Favola del figlio cambiato di Malipiero su testo di Pirandello alla metà degli anni ’70. Breve carriera quantitativamente, ma in 15 anni la Bakocevic non si è risparmiata; il suo repertorio era oneroso e variegato: Margherita del Faust, Leonora de Il trovatore, Butterfly, Minnie, Elisabetta in Don Carlo, Maddalena in Andrea Chenier, Abigaille in Nabucco, Norma, Amelia de Un ballo in maschera, Aida anche se inaspettatamente si è anche prodotta come pucciniana Mimì e Micaela in Carmen. Ha concluso la sua carriera, si diceva con Turandot poi si è data all’insegnamento. Tosca era un personaggio per lei abituale, tanto da cantarlo, oltre che in questa produzione portoghese, sempre nel ’73 alla Scala con Domingo e Zanasi.
Il timbro della Bakocevic ricorda un po’ la connazionale Milanov (carnoso e opulento), ma con una dizione meno accurata («Quella DONA, ho udito i lesti passi…» oppure «Di me befarde ride») e organizzazione vocale meno rilevante; nel duetto iniziale si sforza di dare significato a ciò che canta anche se l’italiano non è l’ideale e alcune frasi sono al limite della comprensibilità. Inoltre non mancano errori di lettura e di battute (finisce per … mandarsi via da sola, quando Mario la congeda nel I atto, ripetendo il «Va»). Nel dialogo che anticipa la scena della tortura i suoni sono robusti, ma anche un certo vecchio modo di presentarsi… che poteva andar bene qualche decennio prima. Anche nella scena dell’arresto brutale di Cavaradossi è mortificata da un acuto tenuto ad oltranza e nemmeno granché di suono. Il «Vissi d’arte» in centro e in basso è piuttosto confuso e non lontano dal mugugno, mentre in alto la Bakocevic presenta suoni luminosi (però qua e là fissi) e di certa consistenza, però la resa del brano è piuttosto affrettata. In seguito, quando Scarpia torna all’assalto non ci viene risparmiato qualche brutto suono in alta quota. Nell’assassinio di Scarpia il soprano non è all’altezza della situazione perché più che cantare parla e se parla si sente poco perché lo fa a bassa voce.
Il III atto vede una cantante chiaramente all’assalto: buono, anche se un po’ metallico il do della ‘lama’ a cui segue l’«O dolci mani» piuttosto stentoreo di Corelli e alquanto monotono, pur nel bel suono. Resta tuttavia l’impressione di un cantare approssimativo (anche nel dosaggio dei fiati: la frase «come nuvole leggere» è quasi troncata). L’unisono «Armonie di canti…» fa udire anche qualche evidente oscillazione, mentre per Corelli raggiungere le vette del pentagramma non fa problema ! Nel finale la Bakocevic canta senza gridare, per nulla si sentono le voci degli altri personaggi e l’opera si chiude con sonorità sferzanti dell’orchestra.
Corelli è indubbiamente grande, ma meno rifinito, almeno inizialmente, in «Recondita armonia» dove tiene la nota finale quanto e come vuole. Nel duetto successivo, gioca un po’ al risparmio e da un tipo eroico come era ci si sarebbe attesi altro. Ad esempio la frase «Ah l’alma acqueta sempre t’amo ti dirò» non è detta con la spavalderia solita anzi è conclusa quasi in tronco. Ugualmente poco incisiva e sorvolata è l’altra frase «La vita mi costasse vi salverò» rispetto a quanto era solito fare. Un pò più animato appare nello scontro con Scarpia nella prima parte del II atto. Ancor meglio il «Vittoria Vittoria», ma qui la confusione orchestrale si fa sentire e si rasenta la baraonda. Arrivati al III atto, la voce eroica si fa sentire, ma anche i portamenti enfatici («Io lascio al mondo una persona cara… Se promettete di consegnarle…»). La romanza è accompagnata con eccesso di sonorità ed è eseguita da Corelli con tutta l’enfasi possibile, ma non con quella abilità vocale di sfumare (in modo enfatico, d’accordo, ma pur sempre abile) che si ode altrove (ad es. l’edizione con la Gordoni e D’Orazi a Parma nel 1967 e diretta da Morelli, pubblicata in selezione dalla MYTO, non so se esista l’integrale).
Bruscantini è la sorpresa di questa edizione e lo si sente subito perché entra con la fatidica frase «Un tal baccano in chiesa» non sbraitato (al contrario di quanto si sente spesso fare) ma con autorità sviluppando tutto ciò che segue in toni colloquiali, senza marcare ogni frase per far sentire la sua terribilità. L’«Or tutto è chiaro» obbedisce a questa pulizia di fondo presentata da questo Scarpia. Nel successivo duetto «Tosca divina, la mano mia…» è iniziato nel migliore dei modi con una morbidezza da Marcello, piuttosto che da freddo calcolatore. Non si comprende per ora la cattiveria di Scarpia: ci sarà tempo a farlo. La dizione di Bruscantini unita alla morbidezza e alla sobrietà fanno il resto e anche nella frase «Ho sortito l’effetto» non abbiamo il solito Scarpia già con la bava alla bocca ed egualmente il reiterato «Già il veleno l’ha rosa» ha il tono di una riflessione personale senza calcolo o ombra di vendetta. La Bakocevic, è chiaro, non vanta la varietà di espedienti interpretativi del baritono e la dizione arranca e arrivata a «Tu non l’avrai stasera. Giuro!» la tentazione di vezzi veristi non è respinta.
Il Te Deum vede un Bruscantini morbido nelle frasi iniziali che risultano giustamente gelide e lo sviluppo del brano è meravigliosamente cantato e pessimamente accompagnato con un coro modesto. Grandissimo Bruscantini è rifinitissimo sul piano vocale e di una lussuria in «Ah di quegli occhi vittoriosi veder la fiamma» che diviene frase da antologia. A ciò si aggiunge che in alto i suoni ci sono tutti e belli e l’artista marchigiano canta tutto persino la ripresa con il coro senza esserne sopraffatto. Nel monologo che apre il II atto («Tosca è un buon falco …. Tarda è la notte …
Ella verrà… Ha più forte sapore») il tono è dapprima da soliloquio e nelle battute con Sciarrone abbiamo notevole semplicità, quindi l’eccitazione sale, ma sempre controllata da ottime intenzioni interpretative e buona voce e senza la risataccia sguaiata che è palestra di effettacci.
L’interrogatorio di Cavaradossi è segnato da oscillazioni ritmiche piuttosto evidenti anche se ben mascherate dai due interlocutori (Bruscantini-Corelli).
C’è da osservare che Bruscantini anche nei momenti più infocati («È forza che s’adempia la legge» e quel che segue) non produce un brutto suono che è uno. Anche nell’incalzare Tosca («Dite dov’è Angelotti… Suvvia dove celato sta…») oppure nell’intimare il silenzio a Cavaradossi abbiamo una civiltà vocale che non ha bisogno di digrignare i denti o urlare. Anzi la fermezza vocale di questo Scarpia ne aumenta la temibilità perché il personaggio si pone non solo come IL MALVAGIO, ma un essere perfetto che non viene turbato nel fare il male, perché è la legge con la quale si identifica.
Anche nel successivo tentativo di violenza a Tosca (fino a «Vissi d’arte», cioè) Bruscantini lavora sulla parola come da pochi Scarpia si sente fare e ciò appare da un «Già mi dicon venal» molto vario ed espressivo. Da incorniciare poi le battute di conversazione con Spoletta sulla finta fucilazione di Cavaradossi per il fraseggio insinuante e per la morbidezza vocale da sempre qui sfoggiata. Senza inutili contorcimenti e strepiti avviene la morte dell’odiato barone: qui Bruscantini si astiene da tutto un urlare e gridare. Forse troppo poco teatrale, si potrebbe dire? Per me no, anzi è uno Scarpia controcorrente che sigla un modo nuovo di vedere il personaggio e ci dà la statura di Bruscantini che, da buffo rossiniano e donizettiano, qui cambia completamente identità con grandissima intelligenza ed un morire nobile che si addice ad un barone, sebbene infame.
Arrivati alla conclusione molti baritoni ‘a torto togati’ (mi si passi questa espressione) e considerati degli Scarpia da medaglia d’oro hanno inciso anche 2 volte quest’opera, ma un’alzata di ingegno sarebbe stata farlo incidere in studio al grande Sesto!
De Fabritiis (di cui si ha l’incisione in studio con la Caniglia e Gigli del ’38, datata e scontata) è scadente e nemmeno la compagine orchestrale si copre di gloria: il direttore sostiene poco il duetto «Mario! Mario!» specie nella prima parte, ma poi è approssimativo, tanto che nelle battute precedenti il bacio davanti la Madonna la confusione orchestrale è globale! Nemmeno si può parlare di ordine nel commento allo sparo del ‘cannon del castello’. Ma poi non c’è atmosfera e stacco tra un episodio e l’altro: tutto è tirato avanti all’insegna del risaputo. Si sottolineano molto genericamente i momenti più festosi («Tutta qui la cantoria» …) per poi degenerare. Il Preludio del III atto è privo di quell’atmosfera notturna ed angosciosa e lo stesso tema di «E lucean le stelle» è convenzionale e ovvio. Anche nel duetto successivo tra Mario e Tosca alcuni tempi lasciano a desiderare. Inoltre la sguaiataggine sonora del commento alla fucilazione è rilevante.
Per finire: Lopes come Angelotti, passa e va via ed egualmente Saraiva come Sciarrone, Giorgetti come Sacrestano non si astiene da qualche trovata e gag vecchie, dice poco la De Castro come Pastorello. Invece Ricciardi come Spoletta è sì un po’ sulle righe nel racconto della perquisizione del II atto («Della signora seguimmo la traccia…»), ma per il resto non è malvagio.
La resa audio non è delle migliori e non rende dilettevole l’ascolto: a volte le voci si perdono un po’ e il coro nella cantata fuori scena è invadente. A tratti invece si è su livelli di apprezzabile nitidezza, ma si tratta di momenti. Ma a contribuire alla noia è anche la mancanza di ogni ricercatezza nella partitura, compito del direttore che abbiam detto.
In sostanza una Tosca squilibrata (e affossata dalla direzione) in cui il tenore è inferiore alla sua fama, il soprano è su un livello sostanzialmente mediocre ad onta del volume di voce e l’unico a brillare e a far storia è Bruscantini artista serio: nel repertorio comico come in quello drammatico. Meno male che se ne ha testimonianza sonora: è il caso di dirlo!
Luca Di Girolamo

Categoria: Dischi

 

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