Tosca
Aggiunto il 23 Aprile, 2009
Prima di iniziare questa recensione faccio una duplice premessa. La prima è questa: a fronte di recenti edizioni discografiche di opere pucciniane (segnatamente la recente Madama Butterfly) che non mi sembra esprimano né vitalità, né novità interpretative di rilievo, quest’edizione si impone per alcuni lieviti teatrali che sa sprigionare. Certo Tosca è ben diversa da Madama Butterfly, più immediata, meno intimizzata ed intimizzante, ma ciò non significa che possieda e manifesti una propria espressività della quale gli interpreti devono farsi carico. A ciò si aggiunge che tale espressività si coniuga con quell’interazione che è un po’ la sigla di quest’opera con le varie catastrofi che si vengono successivamente a verificare: Angelotti, Scarpia, Mario e Tosca finiscono tutti come sappiamo. Qui il gioco riesce almeno per i due protagonisti innamorati e l’ascolto è godibile. La seconda premessa è la seguente: mentre abbiamo una grande quantità di registrazioni (in studio e live) tanto della Tebaldi quanto di Di Stefano sono invece assenti dalla discografia ufficiale l’interpretazione orchestrale di quest’opera di Gavazzeni e lo Scarpia di Bastianini. I due artisti – se si ricorda – si ritrovano insieme nella fortunata e tuttora interessantissima edizione DECCA della ponchielliana Gioconda (Cerquetti, Del Monaco, Simionato e Siepi) ed è strano che la casa discografica inglese non abbia pensato a Bastianini come Scarpia, ma anche come Jago del verdiano Otello (cantato tra l’altro a Il Cairo nel 1965, a due anni dalla prematura scomparsa). In tal senso i tre ‘perfidi’ per antonomasia del teatro musicale italiano a cavallo tra XIX e XX secolo avrebbero avuto una tessera in più. Ciò avvalorato anche dal fatto che Bastianiani appare come uno dei migliori Barnaba incisi (se non il migliore) per la voce torrenziale e per la comprensione del personaggio (bieco, vendicativo e truce come conviene). Proprio la curiosità di questo Scarpia mi ha spinto ad acquistare questo cofanetto (editorialmente piuttosto povero avendo solo la divisione in tracks), anzi a farmelo regalare in quanto per una felice coincidenza mi sono incontrato con un carissimo amico (che cercava per me un dono natalizio) in un negozio romano. La curiosità ed il giudizio su questo Scarpia si sono però abbastanza raffreddati all’ascolto di questo personaggio cantato dal baritono senese. La sua prova è nel complesso deludente. Bastianini, al quale la voce robusta e omogenea non manca, è uno Scarpia piuttosto uniforme sul piano interpretativo e alla fine la sua voce così disinvoltamente esibita, tale da non conoscere mai momenti di stanchezza, finisce per divenire monotona tutta proiettata nel forte. Certo si resta meravigliati da tanta dovizia vocale, però Scarpia non è solo violento e riducibile a Barnaba o a Tonio. Manca l’approfondimento psicologico e ciò in diverse pagine canoniche nelle quali non è necessario fare la voce grossa, anche se essa è sostanzialmente ben emessa. Che cosa si ascolta in questo Scarpia e, soprattutto, cosa gli manca ? Anzitutto le sfumature e la varietà di accenti tra l’inquisitorio e il sottile quando entra in scena. A parte il suo «Un tal baccano in chiesa» che è centrato e sonoro quanto basta, il prosieguo è solo magniloquente e monotono, manca la sottigliezza dell’incontro con Tosca (fra l’altro c’è un errore alla frase «E non fate come certe sfrontate» che Bastianini anticipa ed è costretto a ripetere) oppure a tratti questo Scarpia è superficiale e sbrigativo in frasi che andrebbero meditate: nel Te Deum scompare quell’indole laida che dovrebbe caratterizzare il monologo interiore in cui il personaggio in questione immagina i giochi erotici risolti a suo favore («l’uno al capestro l’altra fra le mie braccia»). Tutto è forte e truce ed in definitiva monotono. Tra l’altro tale unidirezionalità espressiva (in paradossale sentore, direi, di inespressività) è accentuata dal fatto che Scarpia sovente si incontra con Tosca e Mario che, in questa edizione, hanno ben altre risorse espressive ed il confronto si volge a sfavore proprio di Bastianini evidenziandone la povertà. È chiaro che neppure al II atto la temperatura cambia molto: il monologo della cena è imponente, però le due concezioni dell’amore – quello romantico e quello predatorio – in bocca a questo Scarpia si equivalgono e questo non è certo il culmine dell’intelligenza interpretativa. Inoltre qua e là affiora certa meccanicità paga solo del volume della voce e ciò accade anche nel successivo «Se la giurata fede» che risulta essere a tratti, complice Gavazzeni, piuttosto ed impropriamente veloce come accade nel seguente scambio di battute «Violenza non ti farò» e quel che segue. È chiaro che nei momenti più parossistici Bastianini non lesina energie e non fa mai udire suoni beceri che si udivano nel tempo da altri osannati (a torto) interpreti. Però la gamma delle possibilità che il personaggio e la voce dello stesso Bastianini sono valorizzate solo in minima parte. Con uno Scarpia del genere non si fatica a credere che nella scena della morte scompaia schiacciato non solo dal momento scenico, ma anche dalla personalità della Tebaldi.
Parlare di Tosca ed affidarla alla Tebaldi (e a quella del periodo aureo) significa ascoltare un personaggio ormai metabolizzato e digerito come non mai e che a tutt’oggi resta una pietra miliare dell’interpretazione. Ormai sono passati i tempi della presunta rivalità tra Callas e Tebaldi però alcune riflessioni sul loro approccio a Tosca vanno fatte ancor oggi: se la cantante greca aveva studiato al dettaglio l’eroina romana scandagliando frase per frase, la Tebaldi esprimeva lo stesso personaggio con una spontaneità, con una larghezza di fraseggio e con una femminilità che alla Callas erano preclusi anche a causa della diversità timbrica: nell’una grigia e iperdrammatica e nell’altra solare ed innamorata. Certo la genialità della Callas era unica ma anche, a mio avviso, molto costruita (quindi falsa), almeno in questo personaggio.
In questa edizione, pur volendo fare colpo sul pubblico con fraseggi a tratti veristi o altisonanti (nel I atto «Tu non l’avrai stasera»; nel II atto: «Sogghigno di demone», «Nel pozzo del giardino», «Quanto ! (…) Il prezzo»; nel III atto: il «Mario ! Mario» sul corpo privo di vita dell’amante fucilato e per finire lo «Scarpia avanti a Dio» con tanto di grido finale) o con sospiri affannosi, la Tebaldi è eccezionale: dalla soavità e dall’abbandono di «Non la sospiri la nostra casetta» alla disillusione disperata di «Ed io veniva a lui» fino a culminare nel pianto appena accennato di «Egli vede che io piango» abbiamo un gioco di colori ed un legato musicale ed espressivo che fanno balzare sulla sedia. A ciò si aggiunge lo scatto con il quale la Tebaldi affronta le frasi della scena della tortura senza mai che il suono perda squillo e perentorietà. Al termine della scena quando Cavaradossi è portato in scena abbiamo un «Quanto hai penato anima mia» da superstar (e non da Eurostar come alcune frasi di Bastianini) per poi giungere ad un «Vissi d’arte» in cui non si sa che cosa ammirare per prima cosa: l’espressione iniziale supplice ed orante, ma soprattutto naturale e non artefatta o affettatamente ricercata, l’ampiezza della cavata che resta sfarzosa in tutti i registri, la ripresa magistrale in pp della frase «perché me ne rimuneri così». Tutto questo senza indurre a pensare – è bene sottolinearlo – ad un pezzo da concerto in cui la ‘diva’ del momento fa come Cornelia sfoggiando i suoi tesori (come alcune cantanti hanno fatto !). Agguerrita e combattiva anche nell’assassinio di Scarpia, la Tebaldi fa risaltare la monotonia espressiva del suo antagonista con i suoi innumerevoli riflessi di una voce benedetta, di un’intelligenza senza pari e di una pressoché perfetta comprensione del personaggio. Nel III atto il duetto finale con Cavaradossi ha un sentimento ed una dolcezza pressoché unici e, a contornare ciò, troviamo – oltre ad un lucente «Io quella lama gli piantai nel cor» – almeno due frasi sono davvero perle lucenti: «Poscia Civitavecchia una tartana e via pel mar» e «Gli occhi ti chiuderò con mille baci e mille ti dirò nomi d’amore». Frasi davvero della grande vocalista per i pianissimi tutt’altro che evanescenti e solidi resi tali da un’artista mai superficiale nel suono come nell’espressione.
Di Stefano è un Cavaradossi vocalmente molto discutibile: i limiti si fanno sentire soprattutto nel registro acuto che al 90% è sforzato e privo di squillo, molto meno invece nel settore centrale dove la malia del timbro solare che conosciamo si fa sentire con effetti davvero suggestivi affidati – è bene però precisarlo – più all’istinto che al calcolo dei fiati e, insomma, all’apparato tecnico. Le due romanze del I e del III atto sono eseguite bene, ma soprattutto in «E lucean le stelle», Di Stefano compie delle prodezze in pianissimi e accenti carezzevoli davvero sorprendenti (l’avvio della frase «O dolci baci» è una meraviglia, ma si sente che non è risolto con la giusta accortezza in quanto la voce ad un certo punto si incrina seppure in modo poco percettibile ad un primo ascolto arrivati al «disciogliea dai veli»). Il guaio è che a simili suoni così affettuosi, intimi e colloquiali (le battute di conversazione con Tosca sono molto eloquenti e quelle precedenti alla romanza del III atto molto semplici e, al contempo, venate da triste rassegnazione) se ne accostano altri nel registro superiore e l’incanto si spezza. L’esempio più concreto è «Floria (…) sei tu» dopo la tortura ed il successivo «Vittoria ! Vittoria !» che è gridato (come lo sarà anche la frase in unisono con Tosca «Armonie di canti diffonderem» nel III atto), anche se poi Di Stefano mostra un notevole impeto contro Scarpia e la scena si svolge ‘al calor bianco’ fino a quando il pittore viene trascinato via. Se sul piano della vocalità molto può essere censurato, su quello dell’interpretazione il Cavaradossi del tenore catanese è molto giovanile, con una dizione scandita e soprattutto appassionata. Ciò si fa udire con piacevolezza tenendo conto che l’affiatamento con la Tebaldi è avvertibilissimo ed è la sigla del trionfo vocale italiano.
Gli altri cantanti sono di vario rendimento: Badioli è un Sacrestano che presenta le solite mende vocali e caricaturali allora in voga ed il suo Angelus è francamente brutto, Zaccaria inizia in modo aulico per poi scadere un po’, ma nel complesso è efficiente. Meglio gli altri: Pelizzoni è un ottimo e sonoro Spoletta, Morresi e Piva sono positivi nelle loro prove come Sciarrone e Carceriere. Bravo anche l’ignoto pastorello. Fa piacere lodare questi comprimari che ci fanno udire un bell’italiano in un’opera (e in un repertorio come quello del ‘sor Giacomo’) che si gioca sulla parola e sull’espressione. Nulla di più irritante sentire comprimari d’oltralpe che, pur cantando bene, arrancano o annegano nella nostra lingua.
Gavazzeni “mette molta carne al fuoco” nel senso che privilegia i momenti più drammatici e solenni, molto meno quelli più elegiaci dei quali sembra un po’ disinteressarsi o equipararli ai primi ingrossando le tinte. Ma a mio avviso la sua direzione non è memorabile. Profondo conoscitore dell’Ottocento operistico italiano (la sua Anna Bolena e il suo Turco in Italia sono alcune prove molto interessanti), il direttore bergamasco è qui sovente pesante in quelle scene dove si richiederebbe movimento e a tratti è ritmicamente incoerente. Difatti udiamo degli episodi affrettati quando non si dovrebbe; un esempio per tutti, il duetto fra Tosca e Mario nel III atto. Anche in momenti apparentemente giocosi o semplici c’è sempre una coltre di severità fuori posto. È chiaro che il mattutino del III atto non ha molte tinte quanto piuttosto molti scampanii ad effetto e lo stesso Finale dell’opera è piuttosto affrettato tagliando, fra l’altro, alcune battute intermedie tra la scoperta del cadavere di Mario e il suicidio della protagonista. Inoltre la resa fonica non aiuta la percezione di tante finezze della partitura sulle quali Gavazzeni passa sopra
Luca Di Girolamo