Capuleti e Montecchi
Aggiunto il 22 Marzo, 2009
Negli ultimi anni c’è stato un po’ di fermento intorno a questo lavoro di Bellini: ed è un bene perché è sì un patrimonio del repertorio belcantistico, ma è un’opera globalmente meno ispirata rispetto a “Norma” o “Puritani” e quindi, forse più ancora delle precedenti, necessita di un bel parterre di interpreti. Che qui – lo diciamo subito a scanso di equivoci – ci sono eccome.
Ma cosa ne è del repertorio belcantista?
È difficile dirlo in questo momento di vuoto istituzionale, in cui si è esaurita la spinta della grande riforma della seconda metà del Novecento senza che nuovi cantanti di eguale spessore abbiano raccolto il testimone o, in alternativa, senza che una vera “controriforma” abbia fissato i paletti di un nuovo stile esecutivo. In mancanza di ciò, c’è stato da una parte il progressivo riappropriarsi dei grandi ruoli belcantistici da parte dei soprani leggeri o coloratura: chi si lamenta oggi della “Lucia di Lammermoor” di un’eccezionale vocalista come Natalie Dessay probabilmente dimentica l’appropriazione dei grandi ruoli Ronzi de Begnis da parte di Montserrat Caballè, Beverly Sills e Edita Gruberova, nessuna delle quali aveva nei propri cromosomi lo spessore vocale e tragico per affrontarli. Però se lo sono ricavato. È un adattamento? Forse sì, forse no: rimane il fatto che ognuna di esse ha creato un mondo sicuramente perfettibile, sicuramente ancora molto allineato con le tracce segnate da Maria Callas, Joan Sutherland e Marilyn Horne, ma è comunque un abbozzo, un’idea. Il limite di queste personificazioni, però, è che sono rimaste strettamente vincolate alla vocalità e alla personalità spesso preponderante di chi le proponeva, ed è per questo che nessuna di esse ha fatto veramente scuola.
Le epigone di questi “soprani leggeri” (absit iniuria verbis: è solo una definizione di comodo) non hanno lasciato traccia importante, più per carenze intrinseche sul fronte della personalità che non per problemi specifici sul piano tecnico; c’era l’idea che bastasse avere una bella vocina ben impostata e stilizzata per poter fare Lucia o Maria Stuarda, ed ecco perché ci siamo trovati per un po’ di anni davanti a dei bei canarini con l’espressività di un tubero, che pure ci sono state spacciate per “grandi tecniche”.
Ed ecco quindi che si sono creati i presupposti per un ribaltamento della prospettiva, ed è su questo scenario che si è inserita Anna Netrebko. Oggi i benpensanti della tecnica d’emissione flautata, appoggiata sul fiato, con rispetto meticoloso, pedissequo e pedante dei segni d’espressione e fors’anche d’interpunzione semplicemente inorridiscono di fronte alle Lucie e alle Giuliette Capuleti di Anna Netrebko, ma quella del soprano russo non è un’appropriazione indebita: è né più né meno che l’occupazione di un vuoto istituzionale.
Guardiamoci intorno: negli ultimi anni, come abbiamo detto sopra, questi ruoli sono stati coperti o da cantanti ipertecniche ma vuote di ogni valore espressivo (non faccio i nomi, ognuno li conosce) o, d’altra parte, dall’unico vero Fenomeno a livello internazionale, e cioè quella Natalie Dessay che, pur ipertecnica, fa parimenti inorridire i puristi del VCS (Vero Canto Stilizzato), come amiamo definirlo scherzosamente.
Una Netrebko, per come si propone nello splendido “Ah non poss’io partire” registrato su questi dischi, è un’interprete a questo punto da definirsi giustamente storica per quello che fa sentire non solo in termini di smorzature ad alta quota, messe di voce celestiali e sovracuti cristallini, ma anche per la personalità da vera Divastra come ha già dimostrato di essere anche in altre occasioni. E qui c’è definitivamente la quadratura del cerchio, tant’è vero che il pubblico che se ne fotte di aprire la partitura per capire se ogni scoreggia è stata scritta esattamente in quel modo dall’Autore, ha tributato alla Netrebko (e non solo a lei, ma della Garanča parleremo dopo) un successo stratosferico, esattamente come aveva fatto nella “Traviata” o nella “Manon” di Massenet.
Ci scuseranno pertanto i lettori se non apriamo la partitura de “I Capuleti e i Montecchi” per vedere quante forcelle non sono rispettate da Anna Netrebko o da Elina Garanča: non lo riteniamo importante, a fronte del risultato di questi dischi. Questa non è “Norma”: se misuriamo l’esecuzione di una partitura come questa sulla base del solo valore delle note probabilmente i conti non torneranno alla fine. Qui, più che altrove, abbiamo bisogno della zampata dell’interprete di rango per trasformare un lavoro di maniera che non riesce a camminare da solo in un autentico capolavoro, scintillante e rutilante.
Questo è proprio quanto riesce all’ottimo Fabio Luisi che dirige con fantasia e sensibilità gli eccellenti complessi dei Wiener Symphoniker dando all’opera di Bellini il giusto equilibrio fra il sublime classico richiesto e il dramma giovanile del disallineamento rispetto alla realtà circostante. Quest’ultimo aspetto – già magnificamente indagato da Roberto Abbado qualche anno fa in un’eccellente incisione con Eva Mei e Vesselina Kasarova – è ormai un must nell’esecuzione di quest’opera; e a ciò contribuisce ovviamente l’orientamento degli interpreti che hanno abbandonato i languori classicheggianti di buona memoria.
Nonostante l’eccellente apporto di Joseph Calleja, che compita un’ottima cavatina di Tebaldo, e il lavoro complessivamente buono di Robert Gleadow e Tiziano Bracci, rispettivamente Lorenzo e Capellio, è indiscutibile che il peso dell’operazione ricada sulle due splendide protagoniste.
Del diritto di appropriazione del repertorio da parte di Anna Netrebko abbiamo già detto sopra; per il resto val la pena di sottolineare come il suo canto sia limpido, terso e cristallino, nonostante qualche nota appena un po’ stridula nelle smorzature ad alta quota, ma è una menda da poco assolutamente sopportabile nel contesto di una prestazione maiuscola. La voce ha col tempo acquisito una cavata ampia e profonda, dotata di una sensualità intrinseca che mai si sovrappone alla giustezza dell’espressione musicale.
Non c’è invece da discutere sulla predestinazione belcantista di Elina Garanča. Non ci è dato sapere se il giovane mezzosoprano lettone abbia una vocalità simile a quella che Giuditta Grisi nel 1830 esibì per interpretare Romeo, ma il connubio fra il perfetto aplomb stilistico della vocalista e l’esaltazione ebbra dell’interprete ci sembra semplicemente perfetto, in ciò anche superiore a quanto si ascolta negli stessi brani registrati sempre per la DGG nel disco “Bel Canto” diretto da Roberto Abbado. I passaggi di agilità de “La tremenda ultrice spada” non hanno la forza percussiva di quelli di Vesselina Kasarova che li sgranava in modo assai più rutilante, ma sono comunque nitidi e timbratissimi: è lei, oggi, l’interprete ideale di questi ruoli en travesti.
Dirige questa materia incandescente l’ottimo Fabio Luisi per un’edizione che, complessivamente, affianca ai piani altissimi della graduatoria quella di Roberto Abbado e che, in certi punti, la supera grazie alla meravigliosa prova di Anna Netrebko.
Un punto fermo nella discografia del Belcanto