Oberto
Aggiunto il 22 Aprile, 2008
Brutta senza remissione quest’incisione che, peraltro, ha il merito non banalissimo di essere una delle veramente poche della prima opera di Verdi.
La direzione di Pesko, a stare a guardare, non è malissimo: c’è un simpatico piglio pimpante, se vogliamo un po’ scontato in un’opera giovanile di Verdi, ma comunque piacevole da ascoltare. Del resto all’epoca era un direttore ben quotato e la sua candidatura ad un’operazione di questo genere non era per niente peregrina.
Ciò che invece sconcerta ancora oggi è in gran parte il canto, per lo più davvero pessimo.
A parte la Cuniza della Cortez che, ancora oggi, riesce a dire qualcosa di interessante grazie ad un fraseggio che è discretamente infuocato in rapporto alle cose da dire in situazioni come quelle in cui si trova la vera protagonista di questo “laboratorio” , il resto proprio non va.
È teoricamente una buona idea quella di reclutare un tenore come Grilli aduso al repertorio donizettiano; il quale Grilli – poveretto – fa quello che può, ma senza mai trovare il bandolo della matassa di un fraseggio che non è già più donizettiano ma non è ancora compiutamente verdiano. È vero che in un’opera del genere, ancora intrisa di reminiscenze del passato recente, un cantante di questo tipo avrebbe il suo teorico bel perché; ma Grilli era un onesto rimpiazzo, non di sicuro una prima scelta, e questo si sente bene in un’operazione così altamente sperimentale in cui non può percorrere canali più affidabili per lunga frequentazione ma è costretto – se ci si passa il termine – a “recitare a soggetto”.
La Gulin era cantante intelligente e adusa al repertorio spinto-drammatico; quindi, teoricamente la tipologia di cantante meno adatta per un’opera del primo Verdi che pretende dai soprano violente correnti ascensionali che nulla hanno a che vedere con l’emissione di forza dei sopranoni. È vero che questa tipologia di cantanti è quella che più comunemente viene chiamata in ballo per molti ruoli del primo Verdi (pensiamo ad Abigaille, per esempio), ma è un grossolano errore tattico che, come al solito, deriva dall’indisponibilità di belcantiste “di forza”, dotate cioè di un ottimo dominio del canto di sbalzo e di quella spiccata personalità d’interprete che deve nobilitare questi ruoli. Alla Gulin, chiaramente spaesata in un ruolo come questo, manca sia il dominio tecnico indispensabile che la personalità d’interprete. Fa quello che può, ovviamente, e lo fa con gusto sorvegliatissimo e competenza, ma è un’altra soluzione di ripiego – sbagliata – in un allestimento che avrebbe meritato ben altra attenzione.
Ma l’errore più calamitoso di tutti, ai limiti con l’orrore, è la presenza inqualificabile del tremendo Simon Estes nel “title-role”. Si badi: all’epoca non era una scelta tanto strana. Era un gigante nero (o afro-americano che dir si voglia), dotato di un vocione spesso e nero come la pece, originario di Centerville nello Iowa ove era nato nel 1938. Aveva debuttato in Aida nel 1965 e nel 1978 – nei panni dell’Olandese – fu il primo afro-americano a calcare il palcoscenico del sacro Colle di Bayreuth. Persona di rara intelligenza, insegnante di canto, benefattore, ambasciatore dell’arte nel mondo e, non ultimo, più che discreto interprete di alcuni ruoli wagneriani nei quali secondo noi ha trovato un vero e proprio terreno di elezione: tutto ciò non ha fatto comunque di lui un grande interprete dei ruoli verdiani, anzi, se vogliamo essere onesti e sinceri, nemmeno un interprete più genericamente adeguato degli stessi ruoli (e anche di altri non wagneriani, a dirla tutta). Qui, in questa partitura-coacervo del primo Verdi, è un autentico disastro: un continuo birignao spesso stimbrato ma perlopiù abbaiato, senza un minimo indirizzo interpretativo e senza una benché minima traccia in cui si possa identificare una personalità purchessia.
Con questa situazione vocale affondando miseramente nel nulla anche le poche note liete che vengono dalla Cortez, l’unica che abbia oltre ad una discreta contezza del canto di quel particolare periodo storico (la ricordiamo più che discreta Leonora della donizettiana “Favorita”), anche una certa propensione alla scansione rovente e al canto di sbalzo.
È vero che, col dipanarsi della vicenda dell’opera, Cuniza assume progressivamente il ruolo di vera protagonista della vicenda; ma una presenza tutto sommato non più che discreta non basta a risollevare le sorti di un’esecuzione che dovrebbe essere quanto meno eccellente per trascinare il pubblico alla riscoperta di un lavoro dimenticato, cui mancano ancora i crismi di quelli che poi saranno i veri capolavori della prima giovinezza verdiana