Macbeth
Aggiunto il 11 Agosto, 2007
L’allestimento della Cavani per il Teatro Regio di Parma con la direzione del veterano Bruno Bartoletti (2006) è successiva di quasi trent’anni all’edizione (sempre riversata in dvd) di Hadjimischev (Glyndebourne, 1972) e di quasi venti a quella di Ronconi (Deutsche Oper di Berlino, 1987, Art Haus Musik). Pochi anni distanziano invece questa produzione parmense da un’altrettanto importante produzione, quella di David Pountney (Zurigo, 2001) recensita in un altro articolo. Queste sono in buona sostanza le incisioni in dvd del Macbeth rinvenibili attualmente. ‘Cinematografica’ (nel primo atto soprattutto) e ‘teatrale’ (nei restanti tre atti) quella più remota nel tempo dell’abilissimo regista bulgaro Hadjimischev (supportato dalla mano magica di Emanuele Luzzati); assolutamente ‘teatrale’ quella di Ronconi. ‘Onirica’ e ‘orrifica’ quella di Pountney, ‘materica’ e ‘mediterranea’ quella della Cavani. Si tratta di quattro interpretazioni validissime, estremamente distanti tra loro nella concezione. Tutte e quattro seguono l’edizione francese (tradotta in italiano) del 1865, ma soltanto quella diretta da Bartoletti contiene il Balletto. Fatto presumibile (ma non del tutto scontato), le regie più recenti (quelle di Pountney e della Cavani, appunto), molto più che le altre due edizioni, tendono a fornire una sorta di ‘reinvenzione’ del dramma di Verdi e di Piave (con tratti ora più audaci, ora meno), senza però, c’è da dire, abbandonare mai del tutto il ‘tracciato’ fornito nell’opera dai due autori nel 1865.
Kostas Pascalis (nell’edizione per Glyndebourne, con la direzione di Pritchard) è senza dubbio un ottimo Macbeth sia da un punto di vista vocale che scenico, ma un po’ bidimensionale. Hampson e la Marrocu (nell’edizione diretta da Welser-Most e con la regia di Pountney) sono due giovani scapestrati e indemoniati che vanno assieme incontro al loro tragico destino. Mentre invece Bruson, nell’edizione diretta da Sinopoli (regia di Ronconi), costituisce un mondo a sé rispetto alla Lady della Zampieri, come pure Nucci (nell’edizione diretta da Bartoletti) rispetto alla Valayre. Quanto Bruson appare carico ed enfatico, espressivo, pur senza apparire mai ‘falso’, Nucci tratteggia invece un Macbeth anch’egli anziano ma stanco, introverso, mai plateale, che punta tutto sulla forza sanguigna della parola. Nucci oscilla sempre un po’ fra l’’essere’ il personaggio che interpreta e la strizzatina d’occhio al pubblico. Ma è proprio questo continuo oscillare che rende grande le sue interpretazioni. La Zampieri diretta da Sinopoli, invece, è e resta pur sempre ‘la Zampieri’ che ‘si atteggia’ a fare Lady Macbeth. Nucci invece sa benissimo anche ‘essere’ Macbeth. E difatti forse gli unici momenti in cui Nucci sembra meno convincente sono nel Duetto immediatamente successivo all’uccisione di Duncano, in cui il cantante tende di tanto in tanto a guardare il direttore e ad uscire dalla parte. Ma è l’eccezione che conferma la regola, si tratta nel complesso di una grandissima interpretazione.
Come Hadjimischev tende a separare in modo molto radicale ed efficace la dimensione sovrannaturale da quella umana, rendendo molto onirica la prima, e fiabesco-teatrale la seconda (complice una straordinaria attrice quel è la Barstow), così la Cavani contrappone i due mondi ma in modo del tutto personale: la dimensione umana ha i tratti e le vesti del tempo di Shakespeare (con tanto di ‘collare’ bianco per i galantuomini come per i sicari), mentre quella sovrannaturale si catalizza nel calore e nella tempra ‘materica’, mediterranea e solare della Carmen di Bizet. Le streghe sono viste dalla Cavani come delle popolane (forse anch’esse seicentesche) passionali e con impresso il marchio della tradizione antica popolare, avvezze a lavare e stendere i panni quanto a conoscere i segreti ancestrali del tarantismo (la bravissima prima ballerina simula infatti già durante il primo Coro una danza che sembra appunto ricordare nella sua dionisiaca potenza lo spirito del tarantismo). Tant’è che all’inizio dell’opera compiono il gesto di mettersi la barba (quella citata nel libretto) solo perché sentono avvicinarsi degli umani, ma la barba non è loro propria (connaturata a loro). Quindi una realtà umana ‘povera’ che si affianca alle smanie e alle ambizioni fatali dei ricchi. La piazzetta ove queste donne del popolo lavano e stendono i panni è l’elemento scenico principale di questo allestimento; piazzetta che è al tempo stesso un finto teatro (un teatro nel teatro) in cui dei manichini (ai piani alti) e delle comparse (poste a sedere giù) osservano l’accadere della vicenda, specularmente al pubblico vero. Tale rappresentazione delle streghe mi sembra stridere alquanto con il contenuto orrifico e tenebroso del testo, come pure con quella particolare grottesca ironia impressa loro da Verdi. La Cavani accantona quasi interamente quest’aspetto, concependo loro piuttosto come le sigaraie dell’opera di Bizet (nel Terzo atto vengono non a caso adocchiate e contemplate da dei giovani che entrano nella piazzetta e da essi corteggiate). Ed è soprattutto durante il Balletto (concepito da Verdi nella revisione e riscrittura del 1865 per adeguarsi ai gusti del teatro francese) che la componente ‘materica’, ‘mediterranea’ e quella sensuale, erotica trovano un loro forte momento d’aggregazione. L’ironia nelle streghe salta semmai fuori nel successivo “Ondine e Silfidi”, ove esse si producono in una nuova danza e si divertono (non foss’altro che l’erotismo salta di nuovo fuori) a giocare con la spada di Macbeth (Pountney arriverà nella stessa scena, in una sequenza memorabile e irresistibile, a far danzare Macbeth, pur svenuto, con le streghe che spiritosamente invidiose se lo contendono). Ma accanto ad un dosaggio sostanzialmente sapiente dei vari ingredienti (nobiltà d’espressione, drammaticità, sentimento del tragico, ironia, ‘matericità’, tarantismo, solarità mediterranea), la Cavani pare peccare di una non tenue incongruenza. Nella Scena della lettura della lettera, alle prime note dell’orchestra fa il suo apparire in scena un nano vestito da buffone di corte (quella cinque-seicentesca, perché appunto la dimensione ‘umana’ è caratterizzata da personaggi in abiti del tempo suppergiù di Shakespeare). Ottima l’idea di occupare così scenicamente quel momento orchestrale. Si tratta sì di un buffone, ma di un buffone un po’ ferino, in quanto dotato di diabolica coda. Un essere un po’ patetico e un po’ grottesco, un animale privo di cervello, scelto come bersaglio del tutto inerme dei giochi sadici di una Sylvie Valayre a mio giudizio molto poco adatta per il ruolo della Lady. L’aggiunta di questa comparsa, in un primo momento, sembra fungere da gustoso riempitivo mirato ad arricchire e a dinamizzare un po’ la scena; ma la persistenza in scena di questo nano, e il fatto che poi nel monologo di Macbeth “Mi si affaccia un pugnal” sia egli stesso a fornire al protagonista la fatale arma per il delitto (felicissima la trovata di far correre il nano attorno a Macbeth con insistenti e rapidi giri quasi a voler rappresentare fisicamente i tormenti di Macbeth stesso) inducono nello spettatore il dubbio che sia il nano il perno attorno cui ruota l’elemento sovrannaturale dell’opera (lui dunque, e non le popolane-streghe). Spesso infatti i registi (anche quelli cinematografici) adoperano la strategia del ‘disvelamento progressivo’ di un’identità, creando negli spettatori (ignari e candidi come dei bambini) un forte effetto, nonché piacevoli sensazioni. La Cavani pare quindi condurre la mente dello spettatore verso quel disvelamento progressivo in riferimento all’identità segreta del nano. L’incongruenza a cui accennavo nasce dal fatto che in seguito la figura del nano viene bruscamente accantonata, e comunque schiacciata dagli altri personaggi, e soprattutto dagli eventi che scorrono più non curandosi di lui. Non si capisce quindi perché la regista metta così in risalto all’inizio quella comparsa, che sembrava voler (e poter) offrire una terza dimensione prospettica (dopo quella umana e quella ‘popolana’ delle streghe). Per il resto la regia della Cavani pare rispettare in pieno quelli che sono i caratteri e la fisionomia strutturale del dramma di Verdi e di Piave, in senso quasi didascalico. Non resta poco: Macbeth e Banco si guardano preoccupati dopo aver ascoltato le iniziali profezie; il corteo di Duncano, l’inchinarsi dei due coniugi dinnanzi al re; il coro “Schiudi, inferno” con il cadavere che sobriamente viene portato in scena su un telo, e via dicendo. La personalità e l’impronta della Cavani si scorgono semmai in certi dettagli preziosi. Una Lady superstiziosa che nell’aria “Vieni! T’affretta” legge i tarocchi; il bacio sapientemente fermato tra lei e Macbeth dalla marcetta di Duncano; il cadavere di Duncano che viene pulito del sangue da due dame; il bambino già grande attore, espressivissimo, nella scena dell’uccisione di suo padre Banco; le danze sensuali ed evocative nella scena del banchetto; l’idea che Lady durante quella stessa scena non sia moglie fedele ma una ‘mangiauomini’ che va a solleticare gli appetiti maschili passando da commensale a commensale, dinnanzi ad un marito oramai succube anche in questo; la contentezza di Macbeth non appena viene a sapere dell’uccisione di Banco, espressa attraverso l’’arpionatura’ con la mano del volto del sicario (anche questo un momento davvero memorabile, nella sua semplicità, reso con grande abilità da Nucci); il fatto che le streghe facciano bere a Macbeth una pozione prima dell’inizio della scena delle apparizioni (una bevanda con effetti allucinogeni, dunque?); l’orrida visione delle tre apparizioni. Memorabile è anche il momento in cui Macbeth, aiutato da un soldato, si spoglia di manto, corona e scettro per indossare la corazza: pochi secondi in cui le voci e persino l’orchestra tacciono, giusto per sottolineare l’importanza del momento; un momento di pura emozione, che va quasi a rappresentare la ‘sezione aurea’ dell’intera vicenda.
La figura di Silvie Valayre tende a deludere abbastanza, per il semplice fatto che, pur presentando buone doti canore (bella voce ma anche abbastanza duttile nel rappresentare il sadismo e la cattiveria), non è verosimile interpretativamente e scenicamente come Lady Macbeth. Si salvano forse due unici momenti: il duetto che apre il Secondo Atto, e la scena del Sonnambulismo, dove risulta molto più convincente e ‘dentro il ruolo’. Ottimi il Banco di Enrico Iori, come pure il Macduff di Roberto Iuliano. Molto importante scenicamente il Malcolm di Nicola Pascoli. Buona la prova del coro del Teatro Regio di Parma guidata da Faggiani. Il Balletto della Compagnia Balletto di Roma era per certi versi un po’ troppo astratto, stilizzato e ‘moderno’, ma nel complesso ben si integrava con la regia della Cavani.
La direzione di Bartoletti mi sembra nel complesso di gran livello, accurata, seduttiva, e in molti casi musicalissima.
Luca Mantovanelli