Nozze di Figaro
Aggiunto il 31 Luglio, 2007
La folle journée nelle mani del Cigno di Molfetta mantiene tutta la carica vitale orgiastica che ne ha caratterizzato il percorso a cavallo fra gli anni Ottanta e i Novanta e che ha portato la storia esecutiva di quest’opera ai giorni nostri, se consideriamo le esperienze dei filologi che hanno trovato nella recente incisione di Jacobs la massima espressione.
Ancora oggi, a distanza di vent’anni, la direzione di Muti è oggettivamente uno spettacolo. Vero è che ha fra le mani uno strumento di straordinaria duttilità, che per di più con lui ha sempre avuto un feeling particolare, come i Filarmonici; e la risposta del complesso viennese è quasi senza paragoni nella pur sconfinata discografia di questo capolavoro, in cui pure compare con una frequenza notevole, già dai primi accordi dell’introduzione orchestrale che mai sono suonati così felpati e, diremmo quasi, ronzanti. Il ritmo infernale, indiavolato imposto da Muti ha ben poco di quello standard italiano da molti esegeti invocato come ideale per il Mozart “dapontiano” e molto, moltissimo di quel furore che avrebbe caratterizzato da allora in avanti tutti gli specialisti del Barocco, a cominciare dal vero archetipo di essi, almeno sul piano discografico, e cioè John Eliot Gardiner (le scelte di Harnoncourt come sappiamo sono sempre state più eccentriche).
Eccezionale l’accompagnamento dei momenti topici dell’opera: si va dal ritmo indiavolato, frenetico e spassosissimo del duettino Susanna-Marcellina del primo atto, a quello diversamente frenetico, ma di una frenesia permeata di languore e sensualità, delle arie di Cherubino, ai concertati di fine atto, al ritmo spossato, languido e quasi torbido di “Deh vieni non tardar”, sino alla sublime conclusione dell’opera, quella in cui veramente sembra che un’Entità superiore sia scesa fra gli uomini impazziti ad amministrare perdono e consolazione, col sorriso della comprensione per le loro follie.
Una direzione esemplare, che si pone quindi a cavallo fra quelle turgide di “prima” e quelle aguzze e proletarie di “dopo”, e quindi è da considerare assolutamente archetipica; inoltre, è tanta e tale la profondità dei contenuti che non si riuscirebbe a sintetizzare in una recensione e, insomma, merita un ascolto approfondito.
Tutto bene, quindi? Nossignori, perché il versante vocale risente di una genericità francamente imbarazzante, che inficia pesantemente la qualità finale di un prodotto che meritava ben altra classificazione.
Il punto più fallace è, inevitabilmente, alla voce “Susanna”, ricoperta da una cantante che in quel periodo ebbe il proprio inspiegabile momento di gloria. E francamente, pur tenendo conto degli anni passati che dovrebbero indurre ad una riconsiderazione a freddo – e che, di fatto, spesso ci hanno portati a ribaltamenti di prospettive indotti da considerazioni strettamente connesse alla storia dell’interpretazione – fatichiamo davvero a spiegarci perché tante produzioni discografiche dell’epoca avessero al loro centro questa cantante dotata di una vocina complessivamente gradevole (ma non più di tante altre), ben poco estesa, tendenzialmente piuttosto stridula nel settore alto, con poco o nullo dominio della prosodia di qualunque lingua che non fosse la propria, scarsissima padronanza di quella tecnica che addirittura spesso la portava nientemeno che ai ruoli coloratura (ricordiamo addirittura almeno una sua Zerbinetta, in una produzione del Met con Levine cui ha fatto seguito anche un’incisione discografica), ma soprattutto tragicamente incapace di qualsivoglia contenuto interpretativo.
Ricordiamo benissimo, con notevole perplessità, i peana che innalzò una rivista italiana specializzata all’uscita di questa produzione discografica proprio nei confronti di questa Susanna, con l’affermare che sarebbe stata ricordata per la sensualità di cui permeava la propria interpretazione. La cosa curiosa, forse giustificabile sulla base di un bieco campanilismo, è che anche gli americani si accodano deliranti a questo trend.
Niente di tutto ciò: siamo lontani le mille miglia. Anzi: esiste proprio un netto scollamento fra le intenzioni di Muti e le realizzazioni che Kathleen Battle ci fa percepire ogni volta che apre bocca.
Noi non siamo pregiudizialmente contro i soprani leggeri che interpretano questo ruolo, anche se le ultime tendenze riportano in auge i lirici pieni (come la Netrebko testimoniata dal recente video di Salisburgo): siamo orgogliosamente contro chi non esprime nessun tipo di contenuto, limitandosi ad aprir bocca e ad emettere note nemmeno particolarmente attraenti. E, da questo punto di vista, la prova della Battle è completamente fallimentare: non c’è un solo momento in cui la sua performance (di interpretazione non ci sentiremmo di parlare) si segnali non diciamo per un contenuto interessante, ma almeno per una certa qual generica piacevolezza.
Meglio, tutto sommato, il resto del cast, ma anche qui non siamo su piani di eccellenza, eccezion fatta per Margaret Price che canta splendidamente, che attenua (senza esagerare) certe asperità della propria vocalizzazione e che, complessivamente, sembra quella più in linea con le intenzioni del direttore, che infatti la circonda di un tessuto sonoro molto liquido e ricco di suggestione.
Complessivamente piuttosto buona anche la prova di Jorma Hynninen, una scelta abbastanza curiosa (è un insigne interprete di autori come Rautavaara, Sallinen e Merikanto) ma tutto sommato azzeccata: il suo è un Conte imbronciato, ruvido anche nei momenti dove dovrebbe fare un po’ il “lumacone” ma complessivamente gradevole. Prova forse non indimenticabile, ma non priva di una certa qual brada espressività.
Thomas Allen canta bene e fraseggia con gusto, ma come Figaro sembra piuttosto Don Giovanni e sembra non perdere occasione per farcelo notare, per cui alla fine risulta un gradasso assai poco interessante.
Meglio Ann Murray, cui però manca in una certa qual misura quello spensierato abbandonarsi alla follia della giovinezza che Muti evoca continuamente con la propria orchestrazione, ma che lei non sembra raccogliere completamente.
La scelta di Rydl in un ruolo come Bartolo è un nonsenso: manca totalmente di spirito e di autoironia e fraseggia come se fosse Gurnemanz il che, conveniamone, non c’entra granché.
Ramirez è un buon Basilio, la Nicolesco tonitrueggia senza un minimo di sale, mentre la Pace è una Barbarina leggera ma complessivamente gradevole