Lakmé
Aggiunto il 06 Luglio, 2007
È con un po’ di sufficienza che ci si accinge all’ascolto di Lakmé: siamo portati a sorridere, bene che vada, del sentimentalismo d’appendice e dell’esotismo naïf che ne permea musica e versi.
E allora a cosa si possono aggrappare gli interpreti attuali per far digerire allo smaliziato e cinico pubblico di oggi questo fumetto oleografico di gusto coloniale?
Anzitutto bisognerebbe chiedersi se davvero il pubblico di oggi è più smaliziato e cinico che negli anni di Delibes. Oggi non si raccontano più le favole indiane, è vero, ma come spieghiamo la fortuna planetaria di fenomeni come la saga di Potter o l’epopea di Tolkien? E il culto pluri-generazionale dei cicli di Star Trek e Star Wars? Siamo davvero sicuri che questo materiale sia poi tanto diverso dall’India favolistica di Salgari e Kipling (e di Lakmé)? Non è forse lo stesso bisogno di ricreazione spirituale, di allontanamento dal quotidiano, di abbandono nel vibratile ed inquieto mondo della fantasia ad alimentare (tanto ieri quanto oggi) la letteratura d’evasione?
Compito degli interpreti di Lakmè dovrà essere pertanto quello di rivelare le comune radici del genere oltre la patina demodée di tecniche musicali e narrative superate e ricontestualizzarle a distanza di un secolo e mezzo. Se ci pensiamo, non è impossibile.
Sullo sfondo dell’opera si fronteggiano da una parte i colonizzatori inglesi, forti del materialismo luminoso della nostra civiltà, della nostra scienza e del nostro pensiero umanistico e relativista; dall’altra parte si staglia una civiltà misteriosa e insondabile come quella indiana, la cui saggezza millenaria è ancora in contatto con la Natura e con gli Dei. Il contrasto fra civiltà lontanissime era un tema vivo e tormentoso nell’Ottocento del Colonialismo, ma lo è ancora oggi più che mai.
Come è giusto attendersi in un fumetto, l’impossibile sintesi è tentata dall’amore - sorto all’ombra del bambù e dei velenosi fiori di datura - fra l’ufficiale inglese Gérald (di ottimi natali e ancor migliori fidanzamenti) e la sacerdotessa delle foreste, figlia di un bramino ribelle.
Dal punto di vista di Gérald, poi, si pone il problema - classico nella favolistica - della scelta fra la fuga nel mondo magico e incantatorio di Lakmé e la fedeltà al proprio. Anche questo è un tema ancora attuale nella retorica “fantasy” e che, presentato nel modo giusto, può tranquillamente essere proposto al pubblico di oggi.
In sostanza, sforzandosi, per quanto possibile, di attenuare il rischio di oleografico e demodé che l’opera si porta dietro, l’interprete dovrebbe essere in grado di scovare e riproporre quanto di vivo c’è ancora (e c’è) fra i temi che soggiacciono alla favoletta. Lo stesso linguaggio musicale di Delibes, per svenevole che possa sembrare, dovrebbe essere accostato a quei contesti narrativi in cui il pubblico di oggi è dispostissimo ad ammettere l’ingenuità (il cosiddetto “Fantasy”).
Niente di tutto questo fu tentato nel 1967, quando la DECCA mise in cantiere la nuova integrale di Lakmé in onore di Joan Sutherland. E la responsabilità del mezzo fallimento è attribuibile, in primo luogo, a Richard Bonynge che, è vero, amava questo repertorio e desiderava difenderlo, ma più con lo spirito del collezionista, del cultore che del vero interprete.
Di come il pubblico potesse reagire di fronte alla patina polverosa del feuilleton non si curò affatto; tutto ciò che poteva risultare improbabile e svenevole venne lasciato in evidenza a scapito di quei fremiti di modernità che si sarebbero dovuti esplorare e rivelare. Ogni nota, in questa incisione, odora di oleografia, coltivata, manierata, ma stucchevole. Non c’è nemmeno in Bonynge la teatralità ingenua e pugnace di Alain Lombard, la cui lettura (EMI 1971) risulta in tutto superiore.
Con la solita perspicacia, Celletti colse un “clima da salotto vittoriano”; solo che quel che per lui è una caratteristica dell’opera, per me è piuttosto un ripiego del direttore. Non è un caso che Bonynge non sia riuscito, nonostante l’impegno profuso, a far decollare i melodrammi francesi “fin du siècle” da lui riesumati (Esclarmonde e Roi de Lahore ad esempio) pur disponendo delle poderose casse di risonanza della DECCA o della presenza catalizzatrice della moglie.
Va anche detto che il cast di questa Lakmé, con l’eccezione di Dame Joan, è buono ma non adatto a suggerire nuove letture dell’opera . In teoria doveva essere un omaggio agli “specialisti” dell’Opéra Comique; in pratica i complessi di Montecarlo sono appena efficienti; Jané Berbié non ha molto da dire; Alain Vanzo è notevolissimo nel cesellare di incantevoli mezzevoci la sua parte, ma la tessitura risulta troppo acuta e la sua voce, già matura, manca di freschezza; Bacquier è un Nilakantha di lusso per l’eloquenza e l’umanità del fraseggio, ma il suo approccio non esce dalla convenzionalità melodrammatica; gli interpreti secondari infine (fra cui una caricatissima Sinclair) si concedono un umorismo da varietà, che allarga ulteriormente il baratro fra Lakmé e il nostro tempo.
Per fortuna c’è Dame Joan, la cui presenza giustifica, nonostante tutto, l’acquisto dell’incisione.
Non perdiamoci in mezze misure: il personaggio che descrive è uno dei maggiori della sua carriera, non solo degno di Semiramide, Alcina, Margherita di Valois, Beatrice di Tenda e Turandot, ma ad essi accomunato dalla stessa poetica.
Intanto è una Lakmé vocalmente singolarissima.
La tradizione dei soprani “leggeri” (scelta obbligata dai sopracuti delle clochettes) aveva steso sul personaggio una patina diafana, di fragilità infantile, che nessuno aveva mai messo in discussione. La Sutherland - e in particolare quella ultra-quarantenne del 1967 - possiede invece un timbro scuro, corposo, ombreggiato, rotto alle grandi progressioni proto-romantiche di Bellini e Romani.
Il sovracuto c’è ovviamente, ma è meno spregiudicato delle Lakmé tradizionali: c’è anzi da credere che proprio il mi 5 delle clochettes (nota che Dame Joan non ha mai davvero dominato) abbia dissuaso la cantante dal mantenere Lakmé fra i propri rôles fétiches a teatro.
Alla mole della voce fa seguito l’accento, che non ha proprio nulla di fragile e di innocente, anzi è maestoso e sfiora la matronalità, sia pure raccolta in astrazioni lunari e fascinose liquidità.
L’effetto è spiazzante perché, in questo modo, dietro a questa Lakmé, imponente e imperturbabile come un idolo indù semi-nascosto dalla vegetazione tropicale e ricoperto di muschi centenari, noi riconosciamo la Norma come la Sutherland ce l’ha proposta.
Persino la fotografia, che ce la presenta in improbabili vesti indiane sulla confezione del Cd, ricorda la sacerdotessa druidica; stessa contemplazione maestosa e inalterabile, persa in lontananza oltre le passioni umane, quasi inconsapevole della propria grandezza.
Norma e Lakmé: l’accostamento è temerario, lo sappiamo, eppure in virtù dell’interprete affiorano imprevedibili affinità.
Le ravvisiamo già all’inizio, quando il padre di lei, Nilakantha, difensore della religione e capo della resistenza contro i conquistatori, accoglie segretamente i fedeli aspirando con loro alla liberazione. Proprio come nell’opera belliniana, le aspirazioni politico-religiose sono raccolte e vegliate dalla maestosità della Natura, la cui voce si incarna nel canto lunare della sacerdotessa.
In quest’ottica, sentendo la Sutherland esaltarsi fra le iridescenti volute di “Blanche Dourga” non è possibile non pensare al medesimo effetto che produceva il suo “Casta Diva” ultraterreno e primordiale fra le foreste del massiccio centrale.
Proprio come rinunciò all’umanità di Norma (differenziandosi dalla grandiosa rivolta umana di Maria Callas), la Sutherland ha fatto di Lakmè un’astrazione, come un altare dapprima votato alla religione e alla Natura, poi imbrattato dal contatto con la materia. Il tutto senza colpevolezza e senza consapevolezza, come si conviene a un altare su cui altri esercitano i propri rituali o i propri vandalismi.
Proprio come in Norma (o in Turandot e Beatrice di Tenda) la Sutherland raggiunge il vertice della propria poetica nella sublime atarassia dell’auto-immolazione, quando si sottrae ai compromessi impuri dell’umanità: è ancora una volta l’altare che, non pago di accogliere sacrifici, sacrifica sé stesso
Matteo Marazzi