Rosenkavalier
Aggiunto il 25 Giugno, 2016
Con Solti abbiamo ancora un altro punto di vista su questo meraviglioso capolavoro. Il direttore, inglese di adozione ma ungherese di nascita, ha un feeling notevole con Strauss sul quale pure solitamente tende a pestare piuttosto duro.
Qui no.
Qui la grancassa viene lasciata da parte, in favore di un ritmo talora indiavolato, talora più rilassato, ma sempre vivo e pulsante. Certo, è alla testa dei Wiener, gente che questa musica ce l’ha nel sangue (fanno il famoso mugolio di accompagnamento alla cadenza di Annina sulla parola “Kaiserin” nel terzo atto, una loro personalissima tradizione in quest’opera); ma tuttavia non manca di apporre la propria firma evitando il flou di Karajan e tutta la connotazione di quel rimpianto per una specie di aurea ætas di una Mitteleuropa che, estranea a entrambi per questioni anagrafiche, veniva fatta rivivere dall’esule in modo diverso da colui che si era collocato, sia pure obtorto collo e per puro opportunismo, dalla parte dei vincenti. È una Austria felix contemplata da lontano, con nostalgia e anche una punta di rabbia personale, ma sempre con il ritmo dei trequarti, dei Ländler, del Sangue Viennese.
Con Karajan affiorava sempre l’eleganza, il sorriso, la tenerezza.
Con Solti la danza, il senso del tempo che passa, il trascolorare di un’epoca, la rabbia; e questa la puoi raccontare solo se la vivi dal di fuori.
Come al solito, cosa preferire è un fatto squisitamente personale.
Qui, anche se partiamo da punti di vista diversi rispetto a quelli di Erich Kleiber e di Karajan (ma aggiungiamoci anche Böhm, ne parleremo prossimamente), siamo dalle parti del capolavoro.
Diverso, ovviamente e per i motivi già detti da quello di Karajan, ma pur sempre capolavoro.
Il fatto di non pestare la grancassa è utile a evitare tutte le trombonate che riusciranno in stile adeguato solo a Bernstein (peraltro sempre con la stessa meravigliosa orchestra). La scena della consegna della Rosa è molto più ritenuta rispetto a quella realizzata dallo stesso Bernstein, anche se ci si aspetterebbe il contrario. In compenso c’è una vitalità, una gioia di vivere che è veramente eccitante.
Anche questa è Vecchio Impero, sembra voler suggerire l’ungherese Solti.
Devo dire che ci riesce benissimo.
Apprendo dall’amico Maugham che, inizialmente, era in ballottaggio per il ruolo della Marescialla Birgit Nilsson, che si sarebbe aspettata l’attribuzione dopo le incisioni sempre Decca di Elektra e Salome.
Il ruolo le sarebbe stato negato per “mancanza di idiomaticità”, essendo lei svedese; sennonché le venne preferita una come la Crespin che, ovviamente, non era né austriaca né tedesca, ma che in compenso era già veterana del ruolo debuttato, secondo le mie fonti, nel 1953 (quindi, a soli 26 anni) a Marsiglia in francese. Dopo di che, fra le altre, c’erano state le performances di Glyndebourne nel 1960 e quella del Metropolitan nel 1961 a consolidare la sua fama.
Non era quindi un azzardo che la Decca e Solti pensassero alla cantante marsigliese per una parte come questa che, benché storico dominio di cantanti “idiomatiche”, tanto per citare il concetto che fu rifilato alla Nilsson, trovava in lei un’interprete attenta, raffinata, affascinante, con una lievissima nota esotica: le “r” sono deliziosamente francesi, senza correzione, e penso in modo intenzionale, visto che nel suo Wagner si percepiscono molto meno.
Sofisticazione, eleganza, charme (per una volta il termine non sembri abusato); e, allo stesso tempo, spontaneità in tutti i passaggi in cui una Schwarzkopf, nella sua eleganza suprema, sembrava costruire il suo personaggio fotogramma dopo fotogramma.
Credo che qui c’entri moltissimo l’intesa col direttore: le due cantanti sono riuscite a costruire due diversi capolavori proprio grazie all’adesione pressoché perfetta che, ognuna per diversa via, ha realizzato con il proprio mentore. E, credo, a ruoli invertiti non sarebbe venuto fuori lo stesso risultato.
Eccezionale, secondo me, il finale del primo atto che vive di una sensualità alla Susan Sarandon; e qui è straordinario Solti nell’assecondarla, con meravigliosi giochi di rubato nei quali i Wiener tuffano le dita come l’orso Yoghi nel miele. Ma tutte le riflessioni interiori di questa Marie-Thérèse sono davvero stratosferiche per lo charme con cui vengono porte all’ascoltatore.
Yvonne Minton, australiana di Sydney, di 10 anni più giovane, è il solito Octavian eccellente finché deve fare l’amoroso o l’eroe spavaldo, ma svacca orribilmente nei tremendi siparietti di Mariandl. È brava, ma non si fa veramente preferire a nessun’altra della discografia di questo capolavoro.
Rispettata ovviamente anche la giovane età di Sophie, che è Helen Donath. Non è esattamente la mia cantante preferita, ma canta meravigliosamente, con abbandono ed estatica giovinezza: questa è forse la sua prova discografica migliore.
Naturalmente, con tre interpreti di questo livello, quest’orchestra e questo direttore, il terzetto finale è un capolavoro; ma su tutte domina la voce meravigliosa e la classe immensa della Crespin, qui davvero ai suoi vertici.
Il più vecchio del quartetto di protagonisti è Jungwirth, che è del 1919 e quindi è cinquantenne al momento della registrazione. È più baritono che basso, e si sente allorquando deve scendere (il famosissimo “Beschämt” non è esattamente nota sopraffina) ma, pur senza arrivare ai livelli di bravura di altri interpreti come Berry, riesce a sostenere benissimo il canto di conversazione che è richiesto al suo meraviglioso personaggio.
Un piccolo riferimento alla difficilissima parte del tenore italiano, contro cui sembra che Strauss si fosse accanito con divertito sadismo: qui è un giovane Luciano Pavarotti che non ne cava nessun messaggio particolare, ma si limita a far correre la voce con esiti, a dir poco, stratosferici. Nessuno come lui in tutta la discografia.
Favoloso il parterre dei comprimari, in cui troviamo nomi di altissimo livello come Dermota, la Loose, la Howells, Equiluz. Eccellente anche il glorioso Dickie nei panni del tremendo, verbosissimo Valzacchi. C’è un pezzetto di gloria anche per l’ottantenne Jerger, ai suoi tempi prestigioso Ochs. E fra le tre lagnosissime orfanelle – che si divertono come matte, e si sente – c’è persino Arleen Augér
Pietro Bagnoli