Missa Solemnis
Aggiunto il 04 Ottobre, 2015
Questa incisione, che è l’ultima delle numerose di Karajan del capolavoro di Beethoven, è anche particolarmente ispirata nonostante la presenza di un quartetto vocale non particolarmente carismatico, e addirittura calamitoso in una sua parte. Ma, non diversamente dall’ultimo Requiem verdiano di Giulini, la visione globale del direttore annulla tutti i deficit delle componenti che, per essere così brutte, fanno pensare di essere state messe lì apposta.
Composta tra il 1819 e il 1823, la grande Messa è un tentativo di riprendere per la coda quel repertorio sacro che aveva perso così tanta popolarità e cui si cercava di ridare linfa vitale. La strutturazione secondo l’Ordinarium Missae comprende le 5 parti classiche, e cioè il Kyrie, il Gloria, il Credo, il Sanctus-Benedictus e l’Agnus Dei.
Scrive Giovanni Fornasieri:
“Beethoven impiegò quattro anni per completare la partitura che venne eseguita, non più per lo scopo per cui era stata iniziata, a S. Pietroburgo il 18 aprile 1824, per interessamento del principe Nikolaus Galitzin, il cui nome è altresì legato ai Quartetti che Beethoven cominciò a scrivere nel 1822. Ma bisognava attendere il 29 giugno 1830, dopo una parziale ripresa a Vienna il 7 maggio 1824, con l’esclusione cioè del Gloria e del Sanctus Benedictus, per trovare la prima esecuzione completa nella monarchia allora vigente. Fu per la buona volontà e il coraggio di un maestro di scuola, Johann Vincenz Richter, che la diresse nella piccolissima cittadina di Warnsdorf, in Boemia, a sud-est di Dresda. Ma fu Gasparo Spontini che, accostando nello stesso concerto a Berlino nel 1838, il Kyrie e il Gloria della Missa Solemnis al Credo della messa in Si minore di Bach, istituì in modo profetico il legame tra i due grandi capolavori della musica nati da mani diverse ma da analoga ispirazione.
Alcuni passaggi sono indimenticabili. Primo fra tutti il Credo, che Beethoven in un primo tempo avrebbe voluto introdurre da una fanfara orchestrale con “timpani, trombe e tromboni”. Un tema che ha imperiosità monumentale e le cui quattro note si pongono ai punti cardinale della tonalità, stagliandosi poi di tanto in tanto dall’alto del fitto lavorio di sutura delle “idee secondarie”. E il Sanctus, con quella solenne e misteriosa introduzione in Adagio in cui Beethoven sembra aver scoperto l’antica ed esatta etimologia del termine “sanctus”, se-gregato, separato, misteriosamente “eletto”: non clangori di orchestra e coro, ma lineare e purissimo, ancorché antico, intrecciarsi di frasi dei solisti che richiamano l’antica polifonia fiamminga del XV secolo.
E che dire del Benedictus, la cui melodia fiorisce prodigiosamente, come dall’alto di un sottile stelo, su un “sol” acuto del violino solista (uno dei più bei solo orchestrale di violino che esistano), sorretto dal brillio argentino di flauti e clarinetti, anticipo e prefigurazione di quelle “melodie
infinite” che ritroveremo negli ultimi Quartetti? O del “Dona nobis pacem” su cui Beethoven annota “per la pace interna ed esteriore” trasformando così la parola liturgica in un grido dell’uomo a Dio, in un’ansimante preghiera il cui modello si trova in Haydn, nella sua Missa in tempore belli, ma che qui diventa clamore totale dell’essere?
Anche Adorno, che non aveva capito per spirito razionalistico questo capolavoro, si arresta per notare “qualcosa di sconvolgente” in questa partitura la cui complessità è paragonabile solo a quella degli Ultimi Quartetti”.
Poste queste premesse, c’è da dire che fra i vari interpreti che si sono cimentati col capolavoro di Beethoven, Karajan si segnala per continuità nell’approccio, visto che l’ha messo su disco sin dagli Anni Cinquanta. È un lavoro che gli va particolarmente a genio, e si percepisce benissimo; e, per di più, può mettere a frutto tutto il lavoro maturato nel corso delle precedenti registrazioni di cui questa è, per certi versi, la summa. Le campate orchestrali sono illuminate con la dovuta esposizione, ma con una luce soffusa degna di Tiepolo. I tempi sono rilassati, atteggiamento frequente nell’ultimo Karajan, in una sorta di estasi contemplativa, ma senza mai cadere nella lentezza catatonica. La partitura procede lenta ma inesorabile al suo snodo principale, che è l’Adagio del Benedictus in cui l’assolo del violino si interseca con le voci.
Commerciale?
Estetizzante?
Può darsi: ma nessuno mai l’ha fatto con tale intensità e convinzione. Karajan, ultimo baluardo di una tradizione antica che, di lì a poco, sarebbe stata sgretolata dalle istanze di Gardiner e Harnoncourt, capofila di tutti i filologi “modo antiquo”, schiera i Berliner con i Wiener Singverein costituendo un complesso di eccezionale compattezza che si muove come una specie di continuo. In questo contesto, i solisti – che già non sono particolarmente privilegiati dalla scrittura – non risaltano del tutto e finiscono per essere “assorbiti” dal magma musicale orchestrato dal geniale direttore austriaco.
Questo è un bene soprattutto perché ci evita di sentire troppo il tenore, il disastroso Vinson Cole di cui abbiamo già parlato in altre occasioni, che funestò con la sua deprecabile presenza alcune registrazioni degli Anni Ottanta.
Ma nemmeno la Cuberli appare completamente a proprio agio, nonostante la classe cristallina, l’emissione purissima e il fatto che fosse una delle cantanti preferite dal Grande Vecchio. È come se questo repertorio le fosse estraneo; e infatti vi si muove da pesce fuor d’acqua.
Poco da dire sugli altri due solisti che, come detto, vengono anch’essi assorbiti dalla magmatica orchestrazione di Karajan, mentre eccezionale il violino solista che sostiene tutto il peso del Benedictus.
Pietro Bagnoli