Messa da Requiem
Aggiunto il 04 Aprile, 2007
Questo è l’Abbado che ci piace!
Violento, corrusco, al limite persino un po’ plateale, ma con un senso del ritmo ferratissimo, una teatralità persino sfacciata e la piena comprensione del messaggio verdiano, profondamente laico ma con una nota di autentico terrore e di timor panico di fronte ad una realtà aprioristicamente rifiutata ma terribilmente temuta almeno a livello subliminale.
Questa composizione verdiana, com’è noto elaborata in occasione della morte di Alessandro Manzoni – scrittore profondamente ancorato all’etica cristiana e conseguentemente lontano dalle posizioni del musicista di Busseto - ha sempre goduto di splendide esegesi, stimolando evidentemente quanto di meglio c’è nella passione di interpreti che hanno vissuto come una sfida il confronto con le terrificanti campate sonore e i piani prospettici ideati dall’Autore. Ma Abbado riesce a coniugare come pochi altri il senso di impotenza di Verdi di fronte ai grandi misteri della creazione, della morte e della vita “oltre”, affrontati dalla prospettiva di chi non è disposto a piegarsi ad un atto di fede ma solleva orgoglioso la testa a contemplare l’infinito, per poi nuovamente chinarsi, non in segno di sottomissione bensì di terrore, quasi di orrore di fronte ad un mistero che non comprende.
In questo dualismo non risolto fra l’orgoglio dell’uomo e la potenza non riconosciuta ma intuita di un Ente soprannaturale sta l’arco pulsante di questa composizione straordinariamente viva, che ci parla di morte più che di resurrezione; e chi meglio dell’Abbado di quei formidabili anni scaligeri ce ne può raccontare la potenza, senza una minima cessione a quei valori di pietas che invece metteranno in campo altri interpreti, Giulini in testa?
A cominciare dal pedale tenebroso del “Requiem” dell’Introitus, che si libera solo transitoriamente nell’apparentemente consolatorio “Kyrie”, sino alla terribile pulsione del “Libera me” – affidato alla voce percussiva, attonita e commovente di una Katia Ricciarelli ai suoi massimi storici – questa lettura di Abbado non concede all’ascoltatore un solo attimo di tregua. Il celeberrimo “Dies irae” tralascia i turgori post-romantici di orchestrazioni ipertrofiche, puntando al ritmo di secche, violente frustate che colpiscono l’immaginazione dell’ascoltatore molto più che non i volumi frastornanti di altri interpreti, in ciò recuperando lo spirito antico dei primordi dell’ispirazione verdiana, quella che si affidava alle terribili correnti ascensionali più che alle turgidità delle espansioni. Basta sentire il tono attonito, quasi sussurrato con cui lo splendido Ghiaurov accenna il suo “Mors stupebit”, che risponde al ritmo angosciato e felpato di un’orchestra talmente virtuosistica da non far mai rimpiangere le grandi compagini di area mitteleuropea (e da generare non poche perplessità nell’ascoltatore che abbia abboccato all’idea che i complessi scaligeri abbiano imparato a “suonare” solo con Muti).
Ma la drammaticità teatrale tipicamente verdiana irrompe a pieno canale con il grande assolo di Shirley Verrett, in splendida comunione d’intenti con il Direttore: il “Liber scriptus” fa risentire i tormenti de “La luce langue” di una Lady Macbeth completamente svuotata di ogni energia vitale e sostenuta solo dalla propria disperazione.
Più ordinario l’ “Ingemisco” affidato ad un Placido Domingo che – benché anch’egli rodato da una lunga frequentazione con il Maestro milanese – non era sicuramente al top delle proprie possibilità ed è messo abbastanza alla frusta da una scrittura per lui poco agevole, anche se resa con il solito ottimo senso della teatralità.
Altro momento straordinario è il “Sanctus”, in cui il coro di Romano Gandolfi si copre di gloria in un’orgia contrappuntistica che fa palpitare il momento di entusiasmo collettivo.
E si arriva quindi al già citato “Libera me” in cui si alza la trenodia dello splendido canto di Katia Ricciarelli – che raramente abbiamo ascoltato così ispirata – che conclude la scabra riflessione verdiana sulla morte con una nota di speranza, apparentemente lontana dalla poetica dell’Autore, ma che sembra guardare ad un mondo nuovo, ricostruito da quella Fede da cui Verdi si teneva lontano ma che finisce per trasparire guidata dalla calda e insopprimibile umanità dell’Autore.
Una lettura – questa di Abbado (e di Gandolfi, obbligatoriamente da citare come co-interprete essenziale, dato il ruolo ricoperto dal coro) – assolutamente fondamentale per la piena comprensione del capolavoro verdiano