Orfeide
Aggiunto il 17 Marzo, 2007
Malipiero appartiene a quella generazione degli anni ’880 che dopo la prima guerra mondiale fino agli anni ’60 aveva sperato di inventare il futuro guardando al passato, prima del Verismo, prima del Romanticismo, prima persino del Barocco italiano: il classicismo dei temi, il rinascimentalismo del linguaggio, l’omaggio alla Commedia dell’Arte come radice stessa dell’evento teatrale.
L’Orfeide incarna tutte queste generose velleità: è una lunga riflessione sulla musica e sul teatro d’opera, sull’eterno duello fra ambizioni veriste e ricaduta nel convenzionale, fra aspirazioni artistiche ed esigenze del pubblico.
L’opera è concepita in tre sezioni: la prima parte (o preludio) ha come titolo “La Morte delle Maschere”; Brighella, Arlecchino, Balanzone, Capitan Spaventa, Pantalone, Tartaglia e Pulcinella si alternano in una galleria di prevedibili macchiette, volutamente poco divertenti, finché irrompe sul palco Orfeo che, agitando un frustino, li chiude tutti in un armadio (solo Arlecchino riuscirà a fuggire). Il mondo delle maschere è finito, dichiara polemicamente il classico cantore, per far posto a quello dell’umanità più vera. Si apre il secondo capitolo dell’opera: “Le sette canzoni”.
Questa è la sezione più famosa, spesso eseguita singolarmente. Si tratta di sette rapidissime vicende, esposte senza soluzione di continuità musicale, molto diverse per atmosfera e argomento. Solo il personaggio principale canta (su versi antichi, dal Poliziano, a Jacopone, a altri); gli altri agiscono soltanto, sicché queste “espressioni drammatiche” possono considerarsi pantomime con canto.
La prima scena (I vagabondi) narra di un vecchio accattone cieco abbandonato dalla moglie. Nella seconda (A Vespro) una donna devota e disperata prega in una chiesa, finché un frate, che ha fretta di chiudere, la caccia. La terza scena (Il Ritorno) ha per protagonista una madre impazzita di dolore per la creduta morte del figlio in guerra; quando quest’ultimo, vivo e vegeto, corre in casa per riabbracciarla, la donna non lo degna di uno sguardo: paga del suo folle dolore, non ha più bisogno di lui. La quarta scena (l’ubriaco) racconta di un povero passante avvinazzato preso a legnate per un adulterio commesso da altri. La quinta scena (la Serenata) è di gusto deliziosamente noir: una ragazza sta vegliando con i parenti il cadavere di un congiunto morto improvvisamente, mentre il fidanzato di lei, del tutto ignaro dell’accaduto, continua a rivolgerle dalla strada serenate sdolcinate.
Stesso gusto del contrasto si ritrova nella sesta canzone (il campanaro): fuori scena un incendio sta devastando la città, in scena il campanaro sta suonando a stormo per avvisare del pericolo; per accompagnarsi canta però una canzonaccia sconcia. Nella settima e ultima scena (l’alba delle Ceneri) viene contrapposta la lugubre litania del Carro della Morte, che sfila per la città invitando i peccatori alla penitenza, a una ridda di maschere goliardiche e gaudenti. È questo un piccolo colpo di scena: le maschere, che nel prologo erano accusate di becera convenzionalità e distanza dalla vita, la vincono qui sul tetro realismo della morte e della sofferenza. La loro finzione sembra quindi più reale (in senso teatrale) della realtà stessa.
Il mistero è sciolto nella terza e ultima parte dell’opera: l’epilogo, opportunamente chiamato “l’Ottava Canzone”. Si tratta di una scenetta metateatrale piuttosto divertente; una marionetta impersona Nerone, l’imperatore romano, e si concede in scena le peggiori efferatezze: fa sgozzare sua madre, fa bruciare Roma, il tutto cantando ignobili canzoni. La sua esibizione trucida e pacchiana è seguita da ben tre diversi pubblici: vi è un gruppo di aristocratici settecenteschi, con tanto di Re e Regina, che resta imperturbabile; un gruppo di vecchi pedanti che protesta fiera indignazione per tanta sconcezza; infine una vivace marmaglia di giovani che strepita felice di fronte a ogni fiotto di sangue e ad ogni volgarità del personaggio.
Entra finalmente in scena Orfeo: se nel prologo aveva celebrato la verità sulla finzione, qui si diletta di versi aulici e antichi che fanno sì innamorare la Regina, ma che addormentano tutti gli altri.
Il sonno dell’uditorio può avere diversi significati: può essere una critica alla stupidità del pubblico, attratto solo dai fantocci sanguinolenti e triviali come Nerone (non importa se per applaudirli o per fischiarli), mentre di fronte all’Arte si addormenta. Ma potrebbe anche incarnare il massimo obbiettivo del poeta: il sonno è sogno, allontanamento anti-veristico dalla realtà, sottomissione al sortilegio trasumanante dell’Arte e, soprattutto, distacco aristocratico da quel passionare retorico che l’Ottocento e il Verismo avevano associato alla musica e al teatro d’opera. Non è un caso che Orfeo esalti proprio l’imperturbabilità del pubblico settecentesco.
L’incisione qui proposta risale a una produzione fiorentina del 1966, nel contesto di un Maggio dedicato alla classicità (aperto dalla famosa Alceste Gui-De Lullo-Pizzi-Gencer). L’edizione resta legata anche a un episodio luttuoso: la morte, fra le recite, del direttore d’orchestra, il grande Hermann Scherchen, che quindi lascia – in questa incisione – il suo testamento musicale.
Oltre all’interesse per l’opera e per l’autore, non molto rappresentati in disco, è interessante verificare come, quaranta anni fa, ci si potesse rapportare a questo raffinato prodotto di intellettualismo, dai tratti manieristici, dai compiacimenti colti, dai simboli contemporaneamente ingenui e arguti.
L’ascolto è nel complesso invitante e suggestivo, se non proprio avvincente; la musica, ricca di effetti educatamente modali, risulta elaborata ma non laboriosa, anzi gradevolissima, di sapore di volta in volta arcaizzante e popolare. Vi sono echi di Strawinsky, delicati ardimenti strumentali e ritmici, eppure permane, nella melodia e nelle atmosfere, un fondo da Giovane Scuola (strano effetto per un compositore così avverso al Verismo).
Con tutto questo, già nel 1966 si doveva cogliere l’inutilità di tanto impegno: nulla invecchia più in fretta di ciò che vuol essere moderno. Se ne avvide lo stesso Scherchen, che in una lettera alla moglie (riportata nel booklet) parla di Malipiero come di uno “zombie”, reso tale dalla corsa pazza del tempo. Per ridonare alla musica un senso di attualità, Scherchen tentò la carta dell’oggettività, specialmente nella timbrica (translucida, trasparente) e nel ritmo distillatissimo. Ma ci sarebbe voluta, ahimè, un’altra orchestra, più esperta nel repertorio novecentesco, per quanto le forze del Maggio appaiano concentrate e tutto sommato volonterose. Ci sarebbe voluto un altro cast (a parte la primadonna-cammeo): Capecchi, Rinaldi, Misciano e gli altri, evidentemente sconcertati, si rifugiano in pose a metà fra l’opera buffa e il grand-guignol veristico. Infine ci sarebbe voluto, da parte del direttore, un po’ più di senso del gioco, un po’ più di irriverenza, di dinamismo caustico, per spolverare questo testo (che non manca di un certo canagliesco spirito di contraddizione) con un po’ di freschezza irridente e giovanile; oggi ci starebbe bene un Minkowski, mentre nel ‘66 con Scherchen si ha la sensazione di trovarsi non a teatro, bensì a una tavola rotonda di vecchi musicologi, serissimi nella loro missione di dimostrare il valore dell’opera dimenticata.
Il caso di Magda Olivero è a parte. Nel suo monologo di pochi minuti il cinquantaseienne soprano riesce a scuotere improvvisamente l’attenzione dell’ascoltatore (e anche del pubblico che infatti si scatena finalmente in un lungo applauso a scena aperta). Vocalmente è in grande forma: distilla gli intervalli con precisione strumentale ed emette filature eteree. Il timbro è certo intaccato dalle consuete secchezze grigie e vibrazioni vetrose, eppure la cantante dà la sensazione di avere in pugno ogni nota, a ogni altezza e a ogni intensità. Come interprete è un po’ sopra le righe come al solito (ma senza le ringhiosità graffianti della sua Kostelnicka) e ciononostante è terribilmente convincente: si lascia cullare dalle sue visioni, assapora le immagini ingenue e contadine e ne prende sul serio il cantilenare infantile. Il suo accento così antico, magari anche sorpassato (lo stesso che rivestiva di patina “anni ‘30” le sue Adriane Lecouvreur o le sue Fedore) si esalta fra le morbide farneticazioni della madre in lutto: il modo umilmente lamentoso con cui la Olivero ripete “figlio, figlio” evoca quelle pie di paese, oggi estinte, che ogni sera recitavano il rosario alla parrocchia. La risata finale, singhiozzante e urlata, fa l’effetto di una scossa elettrica. Insomma, come ogni interpretazione della Olivero, anche questa è una prova di onestà artistica che lascia disorientati.
Matteo Marazzi