Puritani
Aggiunto il 09 Febbraio, 2007
Cos’è – o meglio, cos’era – una “spedizione punitiva”? Con tale termine in ambito operistico indichiamo una performance in trasferta di un grande Teatro in una landa desolata.
Questa tramandata ai posteri è una “spedizione punitiva” fatta e finita e, come tale, merita qualche considerazione come specchio fedele di un’epoca che fu. Ci sono tutti gli ingredienti: due superstar; un cantante di media levatura; un direttore routinier che taglia tutto il tagliabile frenandosi solo alle soglie della decenza minima e che si accontenta di battere la solfa alla meno peggio, se poi i cantanti entrano al momento giusto… va bene lo stesso; e il resto del cast formato da glorie (si fa per dire) locali che servano né più né meno da tappabuchi.
Sappiamo bene che negli ultimi anni queste interpretazioni sudamericane della Callas sono uscite dalla clandestinità in cui le relegava il mercato parallelo, quello dei misteriosi “dischi pirata” che ogni appassionato si vantava di possedere avendoli acquistati nel negozio di nicchia che li teneva ben nascosti in umide e misteriose cantine.
Sgombriamo subito il campo da dubbi: nessuna rivelazione particolare che ci racconti lati inediti della Callas meritevoli di essere tramandati ai posteri. A parte il fatto che se anche ci fossero, sarebbe ben difficile rendersene conto nella morchia tremenda in cui galleggia un suono chiaramente captato da una trasmissione radiofonica di qualità non eccelsa; rimane però da dire che si tratta di una Callas che non fa ascoltare nulla che non si goda con profitto maggiore nell’incisione in studio ove, peraltro, sarà circondata da un contesto più interessante, a cominciare da una direzione d’orchestra stilisticamente più centrata e comunque infinitamente più ordinata.
Maria aveva debuttato Elvira 3 anni prima a Roma, facendo subito ascoltare una cifra stilistica adeguatissima a quei ruoli Pasta/Grisi che sarebbero diventati – in bocca sua – autentiche gemme, nobilitati da una dizione che stava a metà strada fra l’aulico e il malinconico, ma con in più un tipico “mordente” che sarebbe rimasto un tratto distintivo solo suo e che, probabilmente, le avrebbe potuto permettere di affrontare anche i ruoli Ronzi De Begnis, se l’epoca in cui la Maria ebbe il suo massimo fulgore fosse stata quella della riscoperta di questi ruoli che, invece, attendevano Leyla Gencer. D’altra parte, rimane sempre piuttosto difficile ipotizzare ciò che sarebbe potuto essere, fondandosi sulla base delle sole caratteristiche vocali di un interprete, per grande che possa essere stato.
Qui, ovviamente, i topoi di una grandissima Elvira – la più grande della Storia assieme a Joan Sutherland – ci sono tutti: dal canto patetico del duetto con Giorgio nel primo atto, al dolce chiacchierio con una nota di alienazione di “Son vergin vezzosa”, ad uno splendido “Qui la voce sua soave”. Ciò che manca, ovviamente, non è da cercare nel canto di una Callas già straordinariamente padrona della materia, ma in un contorno che – tenore a parte – non potrebbe essere più scombinato di così.
Dicevamo “tenore a parte” perché la presenza di Di Stefano non è affatto banale come certa critica vorrebbe far credere. Ora, siamo sicuramente lontani da modelli stilistici forbiti da tenore haute-contre (l’unico che, teoricamente, potrebbe affrontare il famigerato fa4 di “Credeasi misera”), ma l’araldica compostezza del personaggio c’è, eccome. Il suo comparire sulla scena è sancito da un “A te o cara” che è – vocalmente ed interpretativamente parlando – un’autentica gemma: si ha letteralmente l’impressione che tutta la tensione della scena si avviti letteralmente sul debordante carisma di Pippo che, tra l’altro, aveva ancora il registro acuto relativamente saldo e in grado quindi di espandersi nelle terrificanti puntate di Arturo – almeno nei limiti che sono quelli non solo dell’epoca, ma tutto sommato quelli tuttora vigenti – con un calore ed un’affettuosità solitamente vietata ai cantanti di stretta osservanza belcantistica. Naturalmente non mancano le celeberrime smorzature di Pippo che non sbiancano mai in smunti falsetti, ma sono sempre perfettamente appoggiate. L’unico grosso problema, peraltro condiviso da tutta la compagnia con la parziale eccezione della Callas, è la totale mancanza di disciplina negli attacchi e negli ingressi: ma va detto che il grosso della responsabilità è nelle mani del direttore d’orchestra, buon battisolfa di vecchia scuola, che dirige una pessima compagine locale con piglio che sta a metà strada fra il romantico (nel senso de “Il bacio di una morta” di Carolina Invernizio) e il verista, dando l’impressione di fornire solo una traccia esecutiva a cantanti che vanno comunque per i cavoli loro.
Prova complessivamente ben più che interessante per Piero Campolonghi, che però inizia molto meglio e più in stile di quanto poi non continui, probabilmente adeguandosi anch’egli al clima da sagra strapaesana; e complessivamente disonorevole per tutti gli altri in campo, evidentemente scelti fra il peggio che la tradizione locale poteva offrire, anche se comunque singolarmente superiori allo scandaloso coro