Ernani
Aggiunto il 26 Novembre, 2006
Questa è proprio un’opera che senza cantanti non si fa.
Qui i cantanti ci sono?
Mah.
Teoricamente, sulla carta, sì. Almeno alla voce tenore, giacché appare indiscutibile che Marco Berti sia uno dei pochi in grado di sostenere senza particolari problemi questa parte, almeno in Italia. Ciò che invece perplime alquanto l’ascoltatore è, come al solito, la suprema indifferenza nell’affrontare partiture come questa che richiedono un’attenzione esecutiva particolare.
Ernani non è Traviata: non marcia da solo. Intendiamoci: la musica è splendida, ricca di quell’ispirazione brada, selvaggia e rude che caratterizzava le prime opere di Verdi, ma manca di quella particolare sensibilità che permetterà ai capolavori seguenti di caratterizzarsi indipendentemente dagli esecutori. Ernani può essere un trappolone se l’esecutore non ci mette quel quid in più che permetta di dare all’opera un’impronta inconfondibile.
Ma allora – ci domandiamo – perché allestire un’opera di questo genere se non si dispone di fuoriclasse che abbiano voglia di tirare fuori gli attributi, anziché di cercare di arrivare onestamente alla fine della serata?
Ce lo chiedevamo vedendo la rappresentazione nella realtà teatrale nuda e cruda; ma i dubbi di allora sono confermati e vieppiù corroborati dalla registrazione che pure ha contribuito a sistemare qualche problema in chi ne aveva maggiormente bisogno. Questo è un Ernani senz’anima: globalmente cantato senza infamia (ma anche senza vera lode), ma soprattutto senza vera passione per una vicenda che trae linfa dalla più pura e ruspante ispirazione del primo Verdi, col canto di sbalzo e le terribili correnti ascensionali che collegano quest’opera ai modelli antecedenti nell’ambito di uno stile che, però, comincia già ad essere anche psicologicamente verdiano.
C’è oggi la possibilità di fare un Ernani di spirito autentcamente verdiano?
Forse sì, forse no. Vocalmente non vediamo grosse obiezioni, a condizione di avere una quaterna di fuoriclasse disposti a misurarsi non solo con il canto di sbalzo, ma anche a credere in quello che dicono. In altre parole: è verosimilmente facile cantare “Amami Alfredo!” mettendoci tutto quel furore esecutivo che faceva “aggrovigliare le budella” a Julia Roberts in “Pretty woman”, ma è sicuramente molto più arduo essere altrettanto attendibili in frasi come “Nel momento in cui Ernani vorrai spento, se uno squillo intenderà, tosto Ernani morirà”.
Forse è questo il vero limite di un’edizione come la presente, che a prima vista sembrerebbe anche discretamente cantata: non ci crede nessuno. Sembrerebbe quasi che tutti abbiano una specie di spocchia nel proporre una vicenda così improbabile. Nessuno si lascia trascinare veramente.
Non Marco Berti, forse il nostro tenore italiano più importante del momento quanto a massa vocale; ma anche, ahimè, cantante che non ha ancora scelto cosa voglia fare da grande, e pertanto privo di una personalità di interprete immediatamente identificabile, ad onta di mezzi vocali straordinari. Continuando di questo passo, diventerà un routinier buono per tutti gli usi, capace di portar a casa qualunque recita grazie ai muscoli di cui è dotato, e pertanto probabilmente ambibile da qualunque produzione. Adesso è Ernani come è Pinkerton, Riccardo o Enzo Grimaldo: accento buono per tutti gli usi e, temiamo, qualche minima incrinatura in un’organizzazione vocale che, un po’ di tempo fa, appariva più spavalda.
Non Susan Neves che con Verdi in genere, e con il primo Verdi in particolare, non ha proprio nulla a che spartire. Senza tirare in ballo Leontyne Price – vale a dire colei che meglio di chiunque altra ha fatto sentire al mondo quali sono le vere caratteristiche di Elvira – ce ne sarebbe abbastanza per rimpiangere chiunque altra. Manca completamente il senso della frase verdiana, quell’affettuosità che stempera l’orgoglio eroico riportandolo sulla terra a contatto con i sentimenti dell’umanità. Oltre a tutto, per un vocione così grosso (più che grande) manca completamente la capacità di far percepire il canto di sbalzo tipico del primo Verdi, che non si realizza mettendolo in mano ad una Turandot, bensì ad una belcantista, come ha ben dimostrato Dame Joan Sutherland cantando in un recital per la Decca il miglior “Santo di Patria” che si possa immaginare. Susan Neves, invece, affronta Elvira come se fosse Turandot, con risultati che non potrebbero essere più lontani dall’ideale.
Non Giacomo Prestia, che non ha nulla di veramente carismatico per farci sentire la trucibalda arroganza e l’umanità offesa di Ruy Gomez, antesignano dei vari Fiesco e Filippo II; oltre a tutto, non si riesce a scansare la sensazione di un’interpretazione da prima lettura, magari suscettibile di aggiustamenti futuri. Però, onestamente, il carisma sta proprio da un’altra parte.
Non, infine, Carlo Guelfi, ormai presenza fissa sui palcoscenici italiani, senza che proprio ce ne si spieghi la ragione, se non per una generica carenza di baritoni in grado di porsi come riferimento in questo repertorio. Siamo sicuramente molto lontani da quell’emissione chiara ed eloquente che caratterizzava altri cantanti, ma è soprattutto l’accento sempre torvo ed aggressivo a lasciarci sconcertati, come se tutto fosse riconducibile ad una generica concitazione da vilain a tutti i costi.
Il tutto viene diretto con buon senso e sicuro mestiere dal bravo Antonello Allemandi, uno di quei direttori che si vorrebbe di principio in una compagnia fissa; e, forse, anche questa rappresentazione potrebbe discretamente figurare in un contesto di recite di secondo compagnia. Ma da qui a fissarla su disco come segno di buona volontà nel riproporre correttamente un repertorio così complesso, a nostro avviso ce ne corre