Amore delle tre melarance
Aggiunto il 02 Settembre, 2006
Ci sono opere che perdono molto del loro fascino al solo ascolto, tanta è la carica di teatralità sprigionata. Quando però, come in questo caso, l’ascolto è frutto di una registrazione live, e in esso si concentra tutta l’espressività di una “storia” vissuta in maniera diretta e coinvolgente allora, non a torto, si parla di realizzazione di un capolavoro.
Non c’erano dubbi sulla validità dell’operazione dei complessi del Kirov, colti in questa performance al Concertgebouw di Amsterdam, guidati, come sono, da quel maestro del “colore” orchestrale, e uomo vitalissimo, che è Gergiev.
Un’orgia di colori, infatti, si sprigiona sin dall’inizio nel prologo da un’orchestra in piena forma, che evidentemente “mangia” quotidianamente questa musica e la rende appetitosamente commestibile anche ai palati troppo avvezzi al “belcanto” nostrano.
Mentre i cori fanno a gara contrappuntistica tra la melodia dei lirici e l’aggressività degli scervellati, le volatine leggere e brillanti del tema del flauto sembrano già sottolineare il nocciolo della questione: gli originali sono gli unici che possono salvare il teatro, rinnovarlo, rivitalizzarlo, renderlo vivo a dispetto dei “ barbosi” e “retrò”.
L’ingresso di Truffaldino ha il folgorante incedere, rapido e squillante di un venticello che ha palesemente l’intento di spazzare via ogni polverosa “vecchiezza” e ogni piccolo accumulo di “ smog” inquinante, rappresentati dal timbro scuro, grave e preoccupato degli ottoni che accompagnano il Re.
E di contrasti l’orchestrazione di Prokofiev ne costruisce in abbondanza, come nella seconda scena del primo atto: all’introduzione sorda e cupa, con ogni genere di sgradevolezza negli ottoni, fa seguito la danza infernale con quelle volate degli archi e dei legni a simulare il vento che soffia impetuoso nel camino, con un turbinio quanto mai realistico, “sporcato” dai vocalizzi di Morgana che hanno inquivocabilmente somiglianza con l’abbaiare di un cane.
Così l’aguzzo ritmo puntato del tema del flauto che ricorre ogni qual volta sono in scena i ridicoli si apparenta al motivo zufolante di Truffaldino, che accentua la leggerezza e la trasparenza del personaggio in contrasto con i timbri scuri degli ottoni in sordina e lo sfondo degli archi gravi che accompagnano Smeraldina prima e Celio dopo.
L’invocazione della fata Morgana, a conclusione del primo atto, ha il sapore tonitruante ed incandescente di un magistrale cromatismo in crescendo, dal grave all’acuto, da leccarsi i baffi.
Nel secondo atto, il motivo del clarinetto caricato in maniera grottesca, irriverente e buffonesca descrive l’apparizione del Principe, che si lamenta in maniera sorda con vocalizzi dettati da evidente sofferenza.
La “marcia” famosissima ha la brillantezza della gioia del “gioco” e il gusto del turbinio del vento che scompiglia ma, subito dopo, la magia diafana del tema di “ Morgana” viene dipinta da un raro e sapiente arabesco trasparente.
Così come l’ostinato dei violini velocissimi ha una ideale realizzazione in associazione con le risate del Principe, che finalmente trova modo di dimenticarsi dei propri mali ipocondriaci.
E ancora da incorniciare sono i contrasti tutti ben evidenziati, dal tema maestoso e lento della maledizione di Morgana, tra le violente scosse degli ottoni e le volate precipitose degli archi, alla melodia saltellante e aguzza del flauto e del clarinetto che figurano la nuova ossessione del principe: le tre melarance.
Ma ancora, che bel sentire quei cupi e sgraziati glissandi dei tromboni che si contrappongono allo squillo argentino delle trombe, sulla esclamazione di Pantalone che chiude il secondo atto su un “disastro” quanto mai sconsolante.
Il tremolo delle viole, dei celli e dei bassi danno una misura precisa del senso di mistero che sprigiona all’inizio del terzo atto, in cui gli accordi sinistri degli ottoni e le dissonanze del mormorio degli archi gravi sembrano un tappeto scuro in contrasto netto con il successivo interludio in allegro brillante, tutto uno scintillio di colori e di leggerezza sopraffina.
Prokofiev prosegue in questa alternanza di contrasti timbrici e Gergiev si diverte un mondo a sottolinearli, come nel caso della scena della cuoca, dove la cupezza della tuba, che delinea una corpulenta virago, fanno da contraltare i violini leggeri e il flauto quanto mai svolazzante, che dipinge il simpatico Truffaldino.
Il tema della seta, plorante tanto quanto un gemito, ricorre per tutta la scena delle Principesse e i colori orchestrali ricordano, subito dopo, un impressionismo decisamente voluto e perseguito con rarefazione di mirabile trasparenza.
La ricorrente “marcia” brillante che chiude il terzo atto ha le caratteristiche di un incedere pomposo ma Gergiev ci mette del suo per acidificarlo quanto può.
Un cromatismo aggressivo apparenta l’inizio furioso del questo atto alla splendida suite Scita ma la “marcia”, più veloce e più ritmata, la fa ancora da protagonista.
La fuga di Clarice, Smeraldina e Leandro con gli archi rapidissimi, i glissandi degli ottoni e le puntature dei legni acuti concludono con virtuosismo l’opera in bellezza.
Alla maestria risaputa di concertatore di Gergiev e alla sua straordinaria performance fa da cassa di risonanza una compagnia di canto che non ha forse vette illustri ma sicuramente la capacità di rendere molto “teatrale” il tutto.
Tra i molti è doveroso sottolineare le prove magistrali, per la continua ricerca di espressività, di chiaroscuri e di adesione ai personaggi del tenore Evgeny Akimov che impersona il Principe, tanto asprigno da allappare i denti, ma assolutamente credibile nella sua nevrosi e nelle sue ripicche bambinesche, quanto nei liricissimi squarci sentimentali che lo riscattano da una sincera antipatia iniziale.
La fata Morgana di Larissa Shevchencko, inquietante nella sua cattiveria, in grado di colorare con sagacia e musicalità, che neppure il ricorso all’abbaiare fa sbandare dalla retta via.
Il Truffaldino simpaticissimo di Alexander Pluzhnikov, saltellante quanto l’accompagnamento del flauto, aguzzo e tagliente nei momenti di difficoltà.
Il cupo, granitico Celio di Vladimir Vaneev, sgraziato quanto basta per delineare un credibile personaggio cattivo.
E la Principessa Ninetta della giovanissima Anna Netrebko, che lascia già presagire quel che diverrà e non solo per l’avvenenza fisica.
Coro del Kirov straordinario per coesione, contrappunto e polifonia.
Senza grande musicalità e senza le umili prove di amalgama non si canterebbe con tale affiatamento questa difficilissima partitura.
L’opera è in russo e il libretto si dimentica della traduzione in italiano, unico neo, piccolo invero, di questa prestigiosa edizione.
Ugo Malasoma