Aida
Aggiunto il 09 Febbraio, 2012
Devo i dischi di questa registrazione alla generosità del grande Piero De Palma, che me ne ha fatto gradito dono. Parlavamo di cosa fosse la sua voce e mi ha citato proprio le frasi del Messaggero: “Le ho sentite cantate da me, e mi sono piaciuto”. Ha ben ragione, il Maestro: il professionismo e, diciamolo, l’Arte di uno dei grandi testimoni dell’arte operistica del secolo scorso, ben si comprendono anche nell’ascolto di quelle poche frasi musicali. È persona amabile, il grande Piero, e ancora eccezionalmente lucido nonostante le 86 primavere: non si ammanta di falsa modestia nel ricordare il contributo che ha dato all’arte che tanto amiamo. Ricorda ancora di come lo volessero i più grandi direttori e soprattutto perché: “Non uscivo mai dalla linea musicale, era il mio forte”. È vero, e lo si capisce molto bene ascoltandolo: intonazione impeccabile, linea purissima, musicalità, verve, freschezza interpretativa anche nelle parti di comprimario di cui, almeno in Italia, è stato il Re indiscusso per tanti decenni. Ha smesso vent’anni fa e, da allora, non ha più cantato una sola nota: gli vada il nostro rispetto anche per questa scelta da grande professionista.
Il pretesto è buono, ovviamente, per fare due chiacchiere anche sul resto di questa registrazione che offre uno spaccato affidabile della rappresentazione operistica sui palcoscenici italiani negli anni che furono.
Tolta la Simionato, che fa di Amneris un personaggio palpitante, fremente, sensuale, fiammeggiante e violento, onestamente non c’è molto.
La Nilsson, per esempio, è deludente; il che, da amante di questa grandissima Artista, mi stupisce non poco: olto meno riuscita, infatti, questa rappresentazione rispetto alla registrazione con Zubin Mehta di 7 anni dopo. Mancano totalmente le sfumature, indispensabili in questa parte per rendere tutti i tormenti della principessa etiope: la maledizione dell’apolide, l’ambiguità nei confronti della propria patria, l’estasi dell’amore. L’emissione è perennemente bloccata sul forte fisso e questo non va bene soprattutto nei passi più elegiaci: il “Cieli azzurri”, per esempio, è di singolare bruttezza e viene concluso da un do affrontato in forte che si rompe sul finale e viene poi recuperato per il rotto della cuffia con il mestiere della grande professionista. Meglio i passaggi dove Aida deve tirar fuori le unghie (il duetto con Amneris, per esempio: ma la Simionato non si fa affatto sovrastare), ma questa non è comunque una prestazione stellare. È un peccato, perché la voce della Nilsson in queste parti ha un suo fascino che non sempre le viene riconosciuto, e che invece sembra quanto mai adatto a questo personaggio: splendidi colore e smalto, tinte luminose e, data l’occasione, senza quei barbagli d’acciaio che sfoggiava quando interpretava Turandot. Probabilmente certi problemi in sala di registrazione vengono risolti, mentre dal vivo risaltano maggiormente; oppure, più banalmente, serata meno riuscita. Rimane il fatto che un’emissione pur solida e tecnicamente ferratissima come questa non paga dividendi in un ruolo come Aida che, invece, può e deve essere giocato sull’ambiguità espressiva, sul non detto, sulle allusioni, sulle variazioni ritmiche e cromatiche.
Decisamente peggio il Radames di questa performance. Pier Miranda Ferraro ha avuto una bella carriera da lirico spinto con, al centro, il ruolo di Otello con cui chiuse l’attività e portato a teatro oltre 300 volte. Nato vicino a Treviso nel 1924, morto nel 2008, Ferraro era un’alternativa di un certo rilievo ai nomi ben più blasonati di quel periodo. Dalla sua aveva una voce grossa così che arrivava bene dappertutto; per contro, nessuna sfumatura, interpretazione molto generica, povertà di colori, dizione stentorea e tutto ciò che costituisce il bagaglio di un onesto professionista di secondo piano. Avessimo oggi un tenore così gli faremmo fare tutto? Io personalmente no: lo trovo veramente di spessore molto modesto. Il vocione è grosso, ma la costruzione degli acuti si avverte laboriosa anche se, una volta lanciati, vengono tenuti in modo gigionesco (come nel finale terzo). Manca totalmente la poesia della rinuncia, o quella dell’abbandono: da questo punto di vista, il quarto atto è singolarmente brutto anche grazie – si fa per dire – al contributo della Nilsson che non aveva nessuna credibilità nella parte delle fanciulle morenti “degli anni lor nel fiore”. Ma tant’è.
Delude anche a sorpresa il grandissimo Cornell MacNeil, il mio baritono verdiano preferito di quegli anni, che gigioneggia in modo tremendo ma senza lasciar segno. Siamo d’accordo: la parte è quella che è, però sembra mancare totalmente di mordente tranne che – si capisce – nel volume vocale.
Ghiaurov replica un personaggio già fatto mille volte, ma non c’è nessun motivo per preferire questa recita a altre: solido professionismo e polmoni d’acciaio temprato.
Di Giulietta Simionato abbiamo già parzialmente detto: è la migliore in campo, con tutti gli aggettivi sopra esposti. È un fenomeno. È una delle migliori di tutti i tempi.
Dirige il tutto Sanzogno, con solido e onesto professionismo