Gotterdammerung
Aggiunto il 17 Agosto, 2007
Chi è il vero protagonista di questo Crepuscolo?
È Alberich, il malefico gnomo che per il potere ha maledetto l’amore e che, una volta di più, dirige le operazioni e tira le fila della vendetta facendo degli altri protagonisti delle marionette nelle sue mani. Tutta la direzione di Karajan lo riporta continuamente in primo piano e l’inizio del secondo atto, il notturno davanti alla reggia dei Gibicunghi è un autentico capolavoro di rimandi fra l’orchestra mobilissima, vaporosa e suadente come nelle atmosfere di certe opere francesi di gusto orientaleggiante come Esclarmonde, e il fraseggio angosciato ed insistente di Kèlèmen. Strano Alberich, il suo; è un personaggio cupo ed angosciato come nella migliore tradizione che vede il suo massimo esponente in Neidlinger, ma possiede una tragica ironia e una mobilità di fraseggio che sono un tratto distintivo solo suo e che lo apparentano molto da vicino alla crudeltà intelligente e raffinata del Mime di Stolze.
Si ha quindi l’impressione che Karajan parta da questo caposaldo e su di esso lavori la costruzione di quello che, secondo alcuni critici, è la parte più debole di tutto il suo Ciclo.
Niente di più falso: è un capolavoro che non paga assolutamente niente alle architetture magniloquenti di Solti, a meno che non vogliamo impostare la discussione sui decibel. La struttura sonora è di straordinaria e multiforme bellezza e lo dimostrano i vari piani su cui si articola questo che, nelle mani del geniale direttore austriaco, non è una saga politica bensì un’articolata esposizione di un mondo apparentemente diverso dal resto del Ring: il regno delle incomprensioni, del non detto, del sottinteso. Uno strano palazzo prismatico in cui i protagonisti si muovono terribilmente distanti gli uni dagli altri, dove tutti parlano sottovoce per paura di rompere l’incantesimo, salvo quando esplodono in urli di rabbia e di disperazione che ci parlano di psicosi represse e di abissi di follia. Un esempio che può chiarire meglio le idee è, alla fine del primo atto, Siegfried compare a Brunnhilde con le sembianze di Gunther: qui l’atmosfera è veramente allucinata e cinematografica (con particolare riferimento ai grandi drammi psicologici di Hitchkock), fra un’orchestra quasi sospesa e la voce straniata e scandita di Brilioth (davvero geniale, in questo punto) che dà quasi l’impressione di essere drogato.
Ma quest’opera – nelle mani di Karajan – è poi veramente un corpo estraneo al resto del Ring? Anche in questo caso la risposta non può essere altro che no. Avevamo già sottolineato non a caso nell’introduzione al ciclo (vedi la recensione della Walkiria) quanto abbiano palesemente pesato sulle scelte del direttore di Salisburgo le nuove concezioni filosofiche che, partendo da Kierkegaard, erano arrivate all’esistenzialismo; e quanto nelle sue mani, che avevano dato il viatico al ciclo della Neue Bayreuth sin dal 1951, il dramma wagneriano si fosse arricchito delle concezioni di teatro da “dramma borghese” che rimandava a Strindberg, con tutte le sue atmosfere cupe ed opprimenti. Leggendo anche questo Götterdämmerung in questa particolare chiave ci rendiamo conto di quanto i protagonisti siano vittime dell’incomunicabilità nel percorso iniziatico che li deve portare alla piena coscienza di se stessi; e, in ciò, non c’è nulla di diverso da quel Siegfried che ci portava la poesia di un protagonista che, novello Lohengrin, necessita di una simbiosi con la Natura per poter arrivare all’amore come espressione della piena conoscenza.
Ci piace quindi considerare questo Götterdämmerung non già come un’occasione per sparare bordate sonore o per concludere l’enciclopedia dei leitmotive (e allora sì che, come sostengono alcuni critici, il compito sarebbe irrimediabilmente fallito), bensì come la conclusione di un passaggio che non porta alla redenzione, ma ad una sospensione priva di certezze: e questo è un aspetto perfettamente in linea con tutto ciò che avevano lasciato in dote gli anni immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale sino a tutti gli Anni Sessanta compresi.
In questa particolare chiave di lettura, ci risulta paradigmatica anche una Dernesch qui sicuramente a suo agio molto più che nel frastagliato – e tutto sommato più ottimista – finale del Siegfried, dove la voce doveva risuonare forte e libera e volare alta come le ali di un’aquila tenuta impropriamente in gabbia troppo tempo. Certo, a restare al “calcolo bruto” delle note continua a rimanere irrisolto l’equivoco di chi ha pensato di scritturarla come alternativa ad una Nilsson che comunque, acuti a parte, qui si sarebbe paradossalmente trovata molto più a mal partito di quanto non ci si trovi il soprano tedesco. Questa atmosfere psicologicamente così elaborate, involute e al limite con il delirio strutturato non sarebbero mai state adatte per un’Artista così lineare, limpida e fondamentalmente ottimista come lei. La Dernesch, invece, mette al servizio della psicologia di Karajan una voce in cui gli acuti non hanno niente della forza serena ed equilibrata della Nilsson (che, quanto a problematicità, come abbiamo visto discendeva direttamente dalla radiosa Lawrence), ma che ci canta forse per l’ultima volta l’epopea delle grandi “zie” della Neue Bayreuth, con un occhio di particolare riguardo a quella Martha Mödl cui la legavano affinità di voce, per entrambe da mezzosoprano acuto. Il finale non ha la serenità calma e pensosa con cui altre cantanti accendevano la pira che avrebbe bruciato il mondo e gli dei; c’è invece – ed è intuizione molto bella – una specie di stanca indifferenza che la porta a scandire le frasi come in una trance ipnotica di rara suggestione (e l’accompagnamento di Karajan qui è particolarmente stupefacente), ma ci rimane la curiosità di cosa avrebbe saputo escogitare la Crèspin, magari ancora più in difficoltà con gli acuti, ma con la consapevolezza tragica di una Kundry di provata esperienza.
Al suo fianco Helge Brilioth, reduce da un passaggio di registro (cinque anni prima) da baritono a tenore, mette a disposizione del proprio personaggio non certo l’autorità di un fraseggio martellante, bensì la poesia della freschezza di una gioventù ingenua e non contaminata da premeditazioni. Riesce a rendere ben chiaro per tutto l’arco dell’opera sia l’entusiasmo per l’amore che inizialmente sembra caratterizzare la propria vita, sia la totale estraneità alle vicende che pure è costretto a scatenare. Gli manca, come alla Dernesch, il volume vocale – che pure qui non è richiesto – oltre che un pizzico di personalità che giustifichi una scelta così importante caduta su un cantante tutto sommato abbastanza sconosciuto (il che anticipa per alcuni versi certe prese di posizione di Karajan nei cast degli anni a seguire), ma in questo particolare contesto questo tutto sommato non è un limite invalicabile. In certi momenti è veramente bravo e riesce a farsi ascoltare con notevole interesse.
Splendido – una volta di più – un altro dei cantanti che caratterizzano profondamente tutta la produzione di questo Ring: ci riferiamo, ovviamente, a Karl Ridderbusch, Hagen di presenza imponente eppure quasi amichevole, sorridente e bonaria, un personaggio che mutua dal padre un’astuzia che non appare mai grossolana. È freddo, questo Hagen, che si propone come il ritratto vivente di quella “normalità del male” che Hannah Arendt ci aveva così ben descritto riferendosi ai nazisti; è un burocrate in stile Himmler che non alza quasi mai la voce ma che, nonostante questo (o forse proprio per questo), riesce ad essere più terrificante di un mostro con tutti gli attributi al proprio posto in bella evidenza. Questo Hagen, dai modi gentili e rassicuranti, non è diverso da quel Ted Bundy – colui per il quale i detectives americani coniarono il termine di “serial killer” – che proprio negli anni in cui Karajan concludeva la registrazione della Tetralogia terrorizzava gli Stati Uniti adescando le proprie vittime con la propria faccia da ragazzo della porta accanto, prima di stuprarle e di massacrarle.
Gunther è un altro discreto errore di distribuzione: Thomas Stewart è bravissimo, ma questi ruoli – così come il Telramund inciso con Kubelik – non gli si confacevano come quel Wotan che aveva servito così genialmente nelle due giornate precedenti.
Parimenti poco interessante la Ludwig che fa di Waltraute il personaggio più convenzionale fra quelli messi in campo, anche se lo fa con una voce splendida e perfettamente timbrata.
Eccellente, invece, la Janowitz che trova nel proprio timbro fanciullesco e nel fraseggio da bambina cresciuta troppo in fretta l’intuizione di fare di Gutrune una vittima dell’incomunicabilità. Non c’è mai gioia, nel suo fraseggio, nemmeno nei momenti che teoricamente divrebbero evocarla; c’è invece quasi una reiterazione di luoghi comuni e di manierismi che ci fanno intravedere gli abissi di una psicosi delirante.
Eccellenti, infine, sia le tre figlie del Reno che le tre Norne, fra le quali apprezziamo in particolare la voce di colei che sarà la più importante Isolde degli anni a venire, vale a dire Catarina Ligendza.
Un capolavoro, insomma; non solo probabilmente la più bella delle giornate di questo Ring, ma anche uno dei capolavori massimi dell’arte del disco d’opera