Venerdì, 18 Aprile 2025

Siegfried

Aggiunto il 16 Agosto, 2007


Richard Wagner
SIEGFRIED

Personaggi e interpreti:
• Siegfried JESS THOMAS
• Mime GERHARD STOLZE
• Der Wanderer THOMAS STEWART
• Alberich ZOLTAN KELEMEN
• Fafner KARL RIDDERBUSCH
• Erda ORALIA DOMINGUEZ
• Brunnhilde HELGA DERNESCH
• Stimme des Waldvogels CATHERINE GAYER

Berliner Philharmoniker
HERBERT VON KARAJAN

Data e luogo di registrazione: Berlin, Jesus-Christus-Kirche, 12/1968 & 2/1969
Registrazione in studio

Edizione discografica: DGG, “The Originals”
4 CD a medio prezzo (venduti singolarmente o in cofanetto con il ciclo completo)

Note tecniche: splendida rimasterizzazione, con eccezionale presenza dell’orchestra e delle voci
Pro: direzione immensamente evocativa, Stolze e Dominguez
Contro: l’ “equivoco” Dernesch, peraltro non disprezzabile
Valutazione complessiva: images/giudizi/eccezionale.png

Un’atmosfera cupa ed evocativa, felpata, con andamento quasi da musica di thriller “à la Hitchkock” introduce l’ascoltatore nell’antro di Mime: è la splendida introduzione orchestrale di Siegfried che nella personalissima visione di Karajan, è un canto del mistero della crescita e dell’adolescenza.
Basta quindi con l’eroe perfettamente puro che deve riscattare il sangue dei Waelsidi e la stirpe stessa degli dei; qui abbiamo un giovane cresciuto allo stato brado da un folletto maligno ma ricco di arguzia ed iniziativa che fa il suo percorso iniziatici adolescenziale grazie ad una Natura ricca di bontà (ed ecco il rilievo particolare dato non solo all’Uccello della Foresta ma anche, come già avevamo visto in Rheingold, anche ad Erda) che lo accoglie nel suo grembo e lo custodisce e lo protegge in vista di quelle prove iniziatiche che lo fanno assomigliare al mozartiano Tamino.
Questa è una grande intuizione, di quelle – per capirci – che scompaginano nettamente il plot interpretativo tradizionale ed obbligano gli interpreti successivi a ragionare diversamente; e, in effetti, se dovessimo pensare necessariamente ad una sola grande intuizione di Karajan in tutto l’arco narrativo del Ring, ci piacerebbe indicare proprio questa che, di fatto, crea un unico arco che parte da Mozart ed arriva a Wagner passando, una volta di più, attraverso quel Weber che mai come in questa edizione era stato esaltato come elemento di riferimento.
Una simile rivoluzione del personaggio principale, che perde tutte le connotazioni eroiche, passa ovviamente attraverso la scelta del protagonista che, qui, è Jess Thomas; un cantante abituato al grande repertorio wagneriano “biondo” (grandissimo Lohengrin, protagonista di una fortunata registrazione con Kempe), di voce chiara e squillante anche se percettibilmente a disagio con l’emissione di forza che in quest’opera, come sappiamo, è messa particolarmente alla frusta.
Nel 1951 Siegfried era stato Bernd Aldenhoff, altro cantante di voce chiara, squillante ed adamantina, anche se di non brillantissima intonazione; un personaggio di non primissimo piano nel percorso della Neue Bayreuth, ma protagonista anche in altri cicli (per esempio, con Knappertsbusch) e soprattutto ben inquadrato in un piano di rinnovamento di Siegfried che avrebbe trovato la sua massima espressione in quel Wolfgang Windgassen, che aveva iniziato la propria carriera proprio con ruoli come Tamino, che fu re incontrastato del ruolo negli Anni Cinquanta proprio a Bayreuth e che, non a caso, aveva preso parte al progetto Decca-Solti anche se all’ultimo tuffo, dopo la verifica dell’indisponibilità della meteora Kozub. La linea di abbandono di supereroi tipo Melchior o Lorenz era stata quindi già intrapresa e validata da diversi anni, e ne dobbiamo attribuire la paternità proprio a Karajan, non fosse altro che per quelle questioni temporali che abbiamo abbondantemente esaminato nell’introduzione al Ciclo (vedi la recensione di Walkiria); la scelta di un grande Lohengrin (che Windgassen, curiosamente, non fu mai ad alti livelli) comportava anche l’aggiunta di un quid di mistero, qualcosa che rendesse il protagonista sfuggente ed inafferrabile. Peccato che, nel pensiero degli eredi, questo poi avrebbe significato affidare il personaggio a tenorini sempre più privi di spessore, sino a tornare – inevitabilmente – a cantanti “ancien règime” (come Jerusalem, padrone del ruolo in tutti gli Anni Novanta) per l’impossibilità di esprimere un livello di poesia così ricco.
Dobbiamo quindi considerare Thomas non solo come ultimo esponente di una categoria di protagonisti ricchi di poesia – anche se a scapito di una maggior percussività nei momenti di maggior tensione (come la forgiatura della spada, portata a termine più con l’astuzia e l’aiuto di Karajan, oltre che con un minimo di fiatone) – ma anche come l’unico che riesca ad infondere una certa quota di nobiltà: una specie di Piccolo Lord ritrovatosi, anziché nei sobborghi di Londra, in una foresta che lo educherà e gli darà la forza di concludere il proprio percorso iniziatico e di ritrovare se stesso. Certo, lo scotto che dobbiamo pagare non è tanto sul fronte degli acuti – che ci sono, indiscutibilmente – quanto su quello dell’accento che manca di incisività nei momenti in cui questa sarebbe maggiormente richiesta: la già menzionata Scena della forgiatura e, ovviamente, tutto l’atto terzo. Ma in compenso il personaggio vibra di una sincerità difficilmente riscontrabile in altri protagonisti e questo lo si nota soprattutto nella scena della foresta che, in quest’edizione, riveste un significato particolarmente profondo.
Al suo fianco, il capolavoro di quel grandissimo cantante che fu Thomas Stewart, un Wanderer ricco di umanità sorridente e di ironia beffarda, quella che gli è necessaria per dialogare pari a pari con il multiforme Mime di Stolze (probabilmente la più bella e sfaccettata rappresentazione di questo splendido duetto), ma anche per svegliare Fafner e, soprattutto, la meravigliosa Erda di Oralia Dominguez, altra cantante per cui questo Ring meriterà sempre un ricordo presso gli appassionati.
Stewart non ha probabilmente l’autorità innata di Hotter, ma il suo è un Viaggiatore in cui – veramente – scintilla l’occhio di Wotan, e sempre con quella nota di umorismo tipica di chi ha la consapevolezza della fine imminente e ha deciso che, in fondo, non è particolarmente importante. E se il dialogo con Mime scintilla di malizia e di una vena di sana cattiveria, quello con Erda risuona di un’autorità ritrovata e della consapevolezza di essere il Signore dei Corvi, mentre quello finale con Siegfried ha la dolcezza di un padre.
Forse qui più ancora che nel Siegfried registrato per la Decca risuona il genio corrosivo e beffardo di Gerhard Stolze, artista geniale anche se assolutamente sui generis, che non può essere giudicato per le virtù canore visto lo strano coacervo di suoni spesso timbrati, lagnosi o in falsetto che produce, ma artista assolutamente poliedrico nello scavo minuzioso della parola. Ovviamente un cantante del genere non ha creato un precedente: nessuno, né prima né dopo, ha posseduto quella particolare tecnica (?) di fonazione che lo caratterizzava, ma questo Mime – così come il Loge del Rheingold – è incredibile per la dialettica sottile che viene inframmezzata da improvvise esplosioni di ira furiosa: una specie di Danny De Vito, dotato di un’irresistibile carica umana che gli permette di sprizzare scintille nel già citato dialogo con il Wanderer ma anche, nel contempo, di trovare accenti carezzevoli e cullanti quando ricorda a Siegfried la sua infanzia.
Splendida, come abbiamo già più volte detto, l’Erda di Oralia Dominguez, di intenso fascino vocale e di immenso carisma, tra l’altro splendidamente sostenuti entrambi da un’orchestrazione amorevole che la incastona come una gemma e da una regia sonora degna di un film.
Kèlèmen è ancora un Alberich grottesco e beffardo, ma non privo di una certa brada e rozza autorità, mentre gli effetti speciali caricano oltre misura il vocione immenso di Karl Ridderbusch, per cui il suo Fafner risulta un po’ troppo grottesco.
Simpatico l’uccello di Catherine Gayer, che canta al centro di una foresta mai così protagonista e che quindi riceve persino più risalto che non la Sutherland nella produzione all stars di Solti.
Della Dernesch abbiamo già parlato ampiamente nell’introduzione al Ring (vedi recensione della Walkiria). È molto brava (è sempre stata una grandissima professionista, anche se di non eccessiva fantasia esecutiva) e le note sono tutte al loro posto, ma ci sentiamo di confermare che la sua scrittura in questa parte sia fondamentalmente un equivoco, anche se – a conti fatti – non escluderemmo che Karajan abbia voluto tentare il colpaccio di “inventare” una nuova Mödl, con cui condivide l’impostazione da mezzosoprano acuto (e come mezzosoprano finirà infatti la carriera). Ma la Mödl fu tutto sommato un caso abbastanza unico nella Storia del canto e la prova della Dernesch lo conferma indirettamente.
La sua bravura e ottima musicalità le impediscono cadute di gusto che, in una concezione direttoriale come questa, c’entrerebbero come il cavolo a merenda, ma non si riesce a scansare una sensazione di disagio sottile dovuto al fatto che, con lei, Karajan sembrerebbe voler affermare di aver trovato la “propria” Nilsson, portandolo nel finale a caricare i suoni in una specie di “trionfalata” in cui nessuno dei due protagonisti si muove particolarmente bene.
Alla fine ci sembra complessivamente una prova interessante e ricca di buon senso, ma lontana sia da quella forza evocativa che vi avrebbe potuto infondere una Nilsson, sia da quella sensualità lungamente repressa che avrebbe potuto far sentire la Crèspin.
Ah, che peccato che Karajan non abbia voluto osare un po’ di più…

Categoria: Dischi

 

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