Walkure
Aggiunto il 14 Agosto, 2007
PREMESSA: l’introduzione che potete leggere qui sotto è anteposta alla Walkyria in quanto pubblicata dalla DGG come prima incisione del ciclo, ma vale per tutte e quattro le opere. Essa è frutto di un lavoro documentario che porta ad alcune conclusioni piuttosto in contraddizione con quanto espresso sinora dalla critica.
Si ringrazia per la paziente ed amichevole revisione (in rigoroso ordine alfabetico): Paolo Bullo, Matteo Marazzi e Vittorio Viganò
INTRODUZIONE
Questa è stata la prima delle opere del grande ciclo wagneriano ad essere diretta in studio per il disco da un ispiratissimo Karajan che, in questo modo, accompagnava il dipanarsi delle recite del Festival pasquale di Salisburgo da lui stesso ideato che presenterà le opere del Ring sino alla sua conclusione nel 1970 con tre rappresentazioni del Crepuscolo, ma senza mai presentare in una stessa stagione tutte le opere contemporaneamente.
A distanza di quarant’anni è un’edizione del Ring ancora classica e di riferimento, anche se oggi sembra tutto scontato (mentre non lo è affatto, se consideriamo tutto il tempo trascorso) e, nell’immaginario collettivo, questa sarebbe la “seconda” in un’ideale classifica che vede inevitabilmente al primo posto la bellissima e cinematografica incisione di Solti, mentre la Storia e il tempo, come al solito galantuomini, ci evidenziano che – come minimo – questa incisione merita il titolo di prima a pari merito, almeno fra quelle in studio (ammesso che questo tipo di classificazioni possa avere un senso).
Sicuramente non è semplice contestualizzare, ma proviamo a partire da qualche presupposto che possa inquadrare storicamente la nascita di questa produzione.
KARAJAN E IL RING
Karajan aveva già diretto tre cicli completi del Ring: il primo ad Aquisgrana nel 1937, il secondo a Bayreuth nel 1951 e il terzo a Vienna nel 1960. Per la piena comprensione della visione di Karajan (che, come vedremo, non è poi così cameristica come la critica officiante anche italiana ci ha fatto credere sinora), ci sembra particolarmente interessante l’allestimento del 1951 a Bayreuth, proprio nel periodo in cui nella città del Tempio della musica wagneriana si preparavano quei cambiamenti che avrebbero rivoluzionato in senso definitivo i criteri interpretativi del repertorio wagneriano che doveva scontare ancora il peso di essere la musica prediletta da Hitler; tale periodo, poi diventato famoso con il termine di Neue Bayreuth, aveva avuto ufficialmente inizio con l’esecuzione della Nona di Beethoven sotto la bacchetta del direttore meno innovatore di tutti, quel Wilhelm Furtwangler che veniva omaggiato come suprema icona di tutto ciò che era stato, ma che poi, di fatto, da quel momento in avanti non avrebbe preso parte al processo innovativo e che infatti, non a caso appena un anno prima aveva fatto la propria personalissima Professione di Fede nel passato celebrando – è il caso di dirlo – il rito del Ring a Milano con un allestimento e un gruppo di cantanti così tradizionali e veterotestamentari (Flagstad, Lorenza, Konetzni, Franz, Treptow) da generare ancora oggi, all’ascolto, un senso di sottile inquietudine dovuta alla sensazione della fine di qualcosa di irripetibile.
A distanza di appena un anno, in quel 1951 così denso di fermenti, Karajan si alternava a Knappertsbusch nell’allestimento del ciclo, con quegli stessi cantanti che poi avrebbero caratterizzato la rivoluzione dell’interpretazione wagneriana: ricordiamo tra gli altri ovviamente la Mödl e la Varnay, Hotter, Aldenhoff, Kuen e Sigurd Bjoerling. La collaborazione fra il genio di Salisburgo e Wieland cessava bruscamente l’anno successivo: nel 1952 Karajan avrebbe mollato Bayreuth per non farvi più ritorno. Non sappiamo bene le ragioni del fatto, ma ci sentiamo tranquillamente di attribuirla all’incompatibilità caratteriale fra due personalità così soverchianti, anche se rimpiangiamo amaramente che l’incontro fra due autentici geni della rappresentazione abbia prodotto così pochi frutti (e con Karajan, purtroppo, è accaduto spesso).
Di quel Ring fondamentale, purtroppo, ci restano testimonianze parziali ma più che sufficienti a chiarirci le idee sul fatto che la concezione di Karajan della drammaturgia wagneriana in senso lato, quella che poi lo avrebbe portato a fissare i grandi capolavori su almeno tre registrazioni essenziali (il Ring per la DGG, il Tristan per la Emi e il Parsifal sempre per la DGG), era già ben chiara nelle sue linee fondamentali.
Si badi: come abbiamo anticipato, non era, né mai sarebbe stato, un Wagner cameristico, come suggerito da molti esegeti, in testa lo stesso Wieland. Si trattava invece – questo sì – di una diversa sottolineatura di aspetti che, sino a quel momento, non avevano ancora trovato il necessario risalto semplicemente perché sino a quel momento non ce n’erano stati i presupposti. A quel punto della Storia, invece, i tempi erano maturi per un cambiamento: la fine della guerra con la distruzione del pangermanesimo di cui, per certi versi, Wagner era stato un più o meno volontario cantore (se non per questioni temporali, almeno per affinità culturali); la necessità della riabilitazione di un repertorio che – come abbiamo visto – a torto o a ragione era stato prediletto dal regime nazista; la consapevolezza del “momento giusto” non solo per la concomitanza con la fine di una guerra iniqua persa, ma per il contemporaneo affermarsi di idee filosofico-letterarie che trovavano in quegli anni la loro popolarità, e a cui dobbiamo ritenere che il direttore salisburghese non fosse indifferente, se non per intima convinzione, quanto meno per il notevole fiuto nel captare le tendenze del periodo e nel renderle funzionali all’interpretazione musicale (e, per rendersene conto, basta ascoltare i diversi cicli delle sinfonie di Beethoven che ha registrato nel corso della sua attività); e, non ultimo, l’affermarsi di un diverso tipo di teatro, quello del dramma borghese che si prestava meravigliosamente bene a certe atmosfere del Ring, in particolare nell’involuzione dei protagonisti da dei ad uomini, passando attraverso quegli eroi che la Storia aveva già ampiamente provveduto a smitizzare e che non avrebbe più potuto né voluto riabilitare.
KARAJAN E LA NEUE BAYREUTH
Questo era il Teatro che Karajan si trovava ad affrontare agli albori della Neue Bayreuth nel 1951: la fine di un periodo di sicurezze crollate insieme a Berlino e l’inizio di una fase da esplorare con prudenza ma, parimenti, con entusiasmo. È in questa particolare ottica che c’è ulteriormente da sottolineare quanto meno con curiosità la presenza contemporanea di personalità così differenti come quelle di un Knappertsbusch – vale a dire uno dei più ferrigni ed orgogliosi conservatori del Sacro Rito del Colle – e di Karajan, chiamati per di più ad alternarsi nello stesso ciclo.
La spiegazione di questo binomio può essere proprio nella lungimirante esigenza di arrivare a sintetizzare, nella stessa produzione, lo Yin e lo Yang, il principio creatore e quello distruttore, sempre che un personaggio pur così intelligente come Wieland avesse intuito che Karajan, ex enfant gaté del regime nazista, potesse farsi interprete delle pulsioni del nuovo corso, eventualmente moderate dalla saggezza di un Knappertsbusch, massimo interprete dell’opera più complessa e ieratica fra quelle composte da Wagner, e cioè il Parsifal; oppure, più banalmente, rende ragione dell’estrema vivacità intellettuale di quel periodo che accettava nel suo stesso seno due visioni destinate ad apparire, se non in aperta antitesi fra di loro, quando meno assai differenti nelle intenzioni e nei risultati (e con gli stessi cantanti che accettavano di misurarsi con due visioni così diverse contemporaneamente!...). Da qualunque punto di vista si valuti questo periodo, se ne deve evidentemente evincere non solo l’eccezionalità, ma anche il fatto che permise all’eccentrico Artista austriaco di porre le premesse all’incisione definitiva del Ring che stiamo analizzando.
Se prendiamo un brano campione, come per esempio l’Entrata degli Dei nel Walhalla, e paragoniamo fra di loro l’esecuzione dal vivo di Bayreuth del 1951 e quella in studio di oltre quindici anni dopo, noteremo che la concezione orchestrale non è molto differente: estrema leggerezza e vaporosità dei colori e speditezza dell’agogica, sempre nervosa, mai disgiunta però dal giusto peso, ben evidente con entrambe le compagini. Allora dobbiamo concludere che ciò che è cambiato, nel frattempo, è il peso vocale: si passa dal Wotan tutto sommato tradizionale di Sigurd Bjoerling a quello intellettuale, cerebrale, giovanile ed “esistenziale” di Dietrich Fischer-Dieskau (che, seguendo una prassi abbastanza consolidata, interpreterà solo il Prologo, le restanti giornate essendo attribuite a Thomas Stewart).
ALL’ORIGINE DI UN EQUIVOCO: L’ORCHESTRA E I CANTANTI
Ecco quindi i due temi principali, quelli con cui si sono baloccate orde di critici sin dal primo apparire di questi dischi: la leggerezza della trama orchestrale e la leggerezza dei cantanti.
Quella dell’orchestra cameristica è invece una fandonia, né più né meno.
Già la scelta di una compagine come quella dei Berliner escluderebbe la miniaturizzazione, ma l’ascolto – anzi, il riascolto, giacché ogni perfect wagnerite che si rispetti si è nutrito a questi dischi, e la ripubblicazione nella collana “The Originals” ha comportato un notevole miglioramento nella qualità audio, davvero splendente (anche se i vecchi vinili avevano un fascino difficilmente superabile ed erano comunque di ottima qualità) – ci obbliga a considerare che non c’è proprio nulla di cameristico o di minimalista nel suono. È inutile fare la spunta di ogni singolo momento, ma l’ampleur dell’Entrata degli Dei nel Walhalla, nelle mani di Karajan, non ha proprio nulla di meno rispetto a Solti. Certo, c’è qualcosa di diverso: una tensione sottile, un movimento continuo, di difficile identificazione. Non è l’ironia, che di sicuro non era nelle corde di Karajan, sempre troppo serioso e pieno di sé. È invece un’inquietudine, un’angoscia sottile che frammenta continuamente la linea e che porta i protagonisti a sussurrare piuttosto che ad urlare la propria solitudine. I Wotan di questo Ring sono figli dell’esistenzialismo imperante, forse Stewart ancora che più Fischer-Dieskau, e in ciò si diversificano nettamente da quelli dell’edizione di Solti che, come avevamo visto, affermavano la forza di un indomito ottimismo che andava contro le rivoluzioni del pensiero che si stavano affermando negli Anni Sessanta del secolo scorso: questa è la vera differenza fra Karajan e Solti, altro che minimalismo orchestrale!...
Già: l’orchestra, dicevamo, non è affatto minimalista; suona non meno meravigliosamente dei Wiener, ma punta verso altri obbiettivi. Se la forza esecutiva di Solti era dionisiaca se non nelle intenzioni, quanto meno negli esiti, i Berliner con Karajan raggiungono un equilibrio apollineo che attinge a piene mani dal naturalismo lucreziano di stampo weberiano. I fiati soprattutto esprimono un’inquietudine molto lontana dalle certezze di Solti: sono aerei, vaporosi, quasi irrisolti. Si direbbe che talvolta la musica si arcui in certi punti come in una sorta di punto interrogativo, ma il discorso non perde mai la propria continuità: anzi, questo è sotto tanti aspetti il Ring più scorrevole di tutti, pur non essendo di certo il più veloce come agogica.
Ci si chiede non impropriamente dove punti Karajan.
Secondo qualcuno, lo scopo è quello della valorizzazione degli episodi più scopertamente lirici: gli accompagnamenti turgidi alla tempesta della primavera, la scelta di voci liriche quando non chiaramente fanciullesche, la comparsa di quell’effetto “flou” che spesso è evidente in tutte le interpretazioni di Karajan. Ci verrebbe da convenire almeno superficialmente, se non fosse che alcuni indizi ci portano ad altre conclusioni.
Innanzitutto la cura maniacale di determinati dettagli; il romanticismo spicciolo tende invece di solito ad affondare in una generica melassa.
Poi la spigolosità di certi incisi, in particolare quando parla Wotan, personaggio il cui tormento è quasi palpabile, il che conferma quella filosofia “esistenzialista” che ci sembra essere la più autentica chiave di lettura di tutta questa splendida interpretazione.
È poi vero – non lo neghiamo – che l’accompagnamento alla Crèspin, a Vickers o a Thomas raggiunga vertici di poesia di una dolcezza quasi straniante, per cui rimaniamo nel dubbio e ci accontentiamo: dopotutto si tratta di una direzione di tale complessità da conservare ancora oggi margini di mistero che è bello lasciare parzialmente inesplorato.
Quanto ai cantanti, è un tormentone nato sin dalla comparsa di questi dischi che evidentemente sorge da un confronto con la recente (all’epoca) pubblicazione del ciclo di Solti che invece aveva pescato in uno zoccolo duro di cantanti provenienti in parte dall’epoca della Neue Bayreuth, cementati da alcune certezze degli Anni Sessanta, prima su tutti Birgit Nilsson. Ora, fermo restando che non è più un mistero per nessuno che anche Karajan avrebbe voluto la Nilsson per la propria incisione del Ring, ma che questa collaborazione non potè concretizzarsi per due motivi fondamentali (la recente partecipazione della cantante svedese al progetto Decca e la mancanza di affinità umana della stessa col direttore austriaco, già resasi evidente in altre occasioni), c’è da dire che le scelte di Karajan possono sembrare un ripiego, ma dopotutto non lo sono affatto.
Prendiamo la Crèspin. Si è molto speculato sul fatto che con la cantante marsigliese Karajan volesse rinverdire i fasti di Germaine Lubin, gloriosa cantante wagneriana di area francese che pure aveva affrontato il personaggio di Brunnhilde e di cui la stessa Régine era stata allieva. In realtà la scelta non appariva così audace come poteva sembrare a prima vista, visto che la Crèspin aveva familiarità con i grandi personaggi wagneriani: era una gloriosa Sieglinde, fra le più grandi della Storia, ma anche una straordinaria Elsa, Elisabeth e persino Kundry, addirittura con il rigorosissimo Knappertsbusch. A differenza della Lubin, era però un lirico autentico cui era difficile pensare – sulla base del pensiero tradizionale imperante – di poter attribuire anche le altre due Brunnhilde, quella di Siegfried e del Crepuscolo, che invece vennero date a Helga Dernesch, generando – qui sì – l’unico vero errore di distribuzione di tutto il Ring, giacché la Dernesch era un mezzosoprano acuto tipo Mödl o, tutt’al più, un falcon che comunque concluse la propria carriera da mezzosoprano, e manifestò nel ruolo le stesse difficoltà che si volle evitare alla Crèspin. Oggi, col senno di poi, con tutte le cantanti che si sono cimentate nel corso degli anni con il ruolo di Brunnhilde essendo prive dei mezzi per poter volare alto nelle enormi difficoltà del ruolo (consideriamo da un lato cantanti inadeguate per caratura come la Behrens o la Evans, ma dall’altro anche urlatrici come la Schnaut o la Eaglen), una simile precauzione fa sorridere, ma fa anche riflettere sul fatto che le intenzioni di Karajan non dovevano essere poi così rivoluzionarie o cameristiche come ci hanno sempre voluto far credere. Rivoluzionario sarebbe stato affidare tutte e tre le Brunnhildi alla Crèspin, non rivolgersi ad un sopranone tradizionale (o tale nelle intenzioni) come sostituzione di una Nilsson: e tanti saluti al Wagner cameristico!...
Ma non è che con gli altri ruoli le cose siano diverse.
Vickers non era nemmeno lui una scelta rivoluzionaria: era uno dei più sensibili ed intelligenti cantanti dell’epoca, eccentrico nelle scelte ma padrone affermato di certe aree del repertorio wagneriano (e per Karajan preparerà ed affronterà Tristan, per la celeberrima produzione discografica della Emi). Anche Stewart, Kèlèmen, Ridderbusch, Talvela e molti altri ancora che compaiono in edizioni live del capolavoro wagneriano appaiono scelte tutt’altro che innovative.
Stolze fa storia a se stante, con quell’emissione così particolare messa a servizio di un’intelligenza esecutiva senza paragoni, ma neppure lui era una scelta audace, visto che era già stato Mime con Solti (qui è anche un Loge corrosivo e ambiguo).
E i tenori protagonisti? Di Vickers abbiamo già detto; Jess Thomas era aduso al repertorio pesante (aveva in repertorio, per esempio, Lohengrin che aveva inciso con Kempe e l’Imperatore della “Donna senz’ombra”); Helge Brilioth era meno conosciuto, aveva da poco fatto il passaggio dalla corda di baritono in cui aveva esordito a quella di tenore (nel 1965, come Don José) e il suo debutto come cantante wagneriano va proprio attribuito a Karajan; da questo punto di vista, è da considerarsi l’unica vera intuizione di tutta una registrazione che, dobbiamo concludere, dal punto di vista dei cantanti non è per niente così innovativa come sembra.
DECADENTISMO MUSICALE?
In conclusione, una registrazione fondamentale.
Da allora in avanti, nessuno più si cimenterà col Ring seguendo pienamente la traccia di Karajan, tranne forse Janowsky che equivocherà le intenzioni del predecessore ricorrendo a voci mignon con esiti in larga parte fallimentari. Ma nemmeno lo stesso Boulez, secondo alcuni esegeti il più straordinario riformatore del Ring (secondo noi non lo è affatto, anche se la sua visione è in certi passaggi assolutamente geniale) seguirà le indicazioni di Karajan, forse perché nessuno crederà più nel Naturalismo weberiano come “motore musicale” cui agganciarsi per lo sviluppo del discorso tematico.
Eppure, secondo qualcuno sarà colpa di Karajan se tutti gli interpreti successivi si dedicheranno alla decomposizione del ciclo wagneriano, a partire da Boulez sino ai più recenti, come in una sorta di inarrestabile decadentismo.
Forse analizzando altre incisioni antecedenti (tutte dal vivo) troveremo elementi che si pongono a premessa di quanto realizzato da Karajan, ma questa è la prima volta che in studio ci si pone da un punto di vista di esaltazione di alcuni elementi, in primis la forza della Natura come elemento all’origine dei movimenti dei personaggi; e in ciò non vediamo nulla di decadente. Se consideriamo quanto abbia influito Weber nella produzione wagneriana, questo dato appare talmente ovvio da apparire persino scontato, ma va dato merito a Karajan di averlo posto in straordinaria evidenza, grazie ad un’orchestra duttile e plastica e ad una compagnia di cantanti sicuramente non esenti da difetti nei suoi componenti singoli, ma di straordinaria coesione sotto il pugno saldo del direttore.
C’è forse un solo elemento di verità: se è vero che tutte le interpretazioni successive hanno dovuto fare i conti come termine di paragone con la registrazione di Solti per la sua paradigmaticità, è anche vero che parimenti tutte hanno guardato con rispetto a quanto realizzato da Karajan per l’attenzione alla vicenda umana, il che forse ha portato a quel decadentismo che molti oggi vedono nelle più recenti interpretazioni (quanto meno da Boulez in avanti).
È quello di Karajan uno snaturare il pensiero wagneriano? Non crediamo: ci piace pensare piuttosto ad un’inevitabile evoluzione, forse non più attuale ma di irresistibile fascino
Esaurita la premessa, ci rimane da parlare dell’incisione.
Che è davvero splendida.
In assoluto la Walkiria più “ascoltabile” fra tutte quelle testimoniate dal disco, grazie ad una propulsione tambureggiante che non viene mai meno nemmeno negli episodi più spiccatamente lirici, che pure godono di un’attenzione molto cinematografica che fa pensare ai grandi capolavori come “Via col vento” (e questo renderebbe ragione a chi pensa che Karajan punti direttamente al sodo dell’eros).
L’orchestra è meravigliosa ed indiscussa protagonista, in una colonna sonora mai invadente eppure sempre presente. Dicevamo della propulsione, che è già evidente sin dal preludio iniziale, angosciante, incalzante, sino all’oasi di serenità rappresentata dalla casa in cui Siegmund si rifugia. Ma la propulsione, più sottile ed incisiva, è ben evidente anche nel secondo atto, non solo nel duetto fra Wotan e Fricka (di angosciante bellezza, richiama le atmosfere dei grandi film di Ingmar Bergman), ma anche nel racconto di Wotan, che Stewart pronuncia sul filo di una sbigottita mezzavoce (probabilmente di difficile replica nel contesto di una recita teatrale, nondimeno di conturbante e ipnotico fascino; ed è proprio una di quelle situazioni in cui ci si deve convertire alla necessità del disco per l’esplorazione degli abissi del cuore del teatro musicale) sino alla drammatica esplosione dell’ “Ah, freche du!”; per arrivare ad un terzo atto veramente drammatico, rapinoso, in cui la fusione degli intenti del direttore con i due protagonisti è così perfetta da essere paradigmatica. Mai lo sprechgesang era risuonato così affascinante, complesso e teatrale.
Dicevamo dell’eros. Le atmosfere suggerite da Karajan alla fine del primo atto sono di tale conturbante bellezza da realizzare un vero e proprio momento di sospensione in cui si ha proprio la sensazione che un terzo elemento, quello della natura (ed ecco l’omaggio a Weber) prenda in mano le redini del racconto. E se perfetta è la fusione di questa orchestra con la voce così “imperfetta”, ma carica di dolorose suggestioni di Vickers, c’è da dolersi invece della mancata risoluzione del personaggio della Janowitz, che canta complessivamente bene (come vedremo), ma è inadeguata ad una parte che avrebbe richiesto come minimo la presenza di una Crèspin, se questa già non avesse assunto il ruolo di Brunnhilde.
Già, i cantanti.
A parte alcune splendide prove singole, c’è da dire che formano un insieme coeso di raro equilibrio, assorbendo così nel proprio alveo alcune magagne non risolte, come per esempio il tono veramente troppo fanciullesco con cui si esprime questa Sieglinde, troppo bambina per essere veramente credibile come amante. Oltre a ciò, la Janowitz evidenzia problemi di difficile soluzione nelle zone alte del pentagramma, dove gli acuti suonano spesso striduli nel contesto di un vibrato complessivamente poco credibile. L’accento però è sempre giusto: trepidante senza essere piagnucoloso, angosciato e, occasionalmente, fermo e vibrante (come nel “Der Männer sippe”), pur senza mai arrivare all’autorità espressa da altre cantanti.
Al suo fianco, l’inimitabile poesia di Jon Vickers, Siegmund di fascino immenso, traboccante di una virilità serena e pensosa, sostanzialmente il migliore mai espresso in sala di registrazione o dal vivo (e sappiamo bene quanto sia stato frequentato questo personaggio anche da tenori non di stretta osservanza wagneriana). È indescrivibile ciò che la sua voce riesce a creare non solo nel primo atto, ma anche nella trepidazione dell’Annuncio di morte in cui si riesce a percepire il sorriso stanco e la serenità della rassegnazione alla fine chiaramente presentita come imminente, in antitesi alle parole di Brunnhilde (solo le parole, perché il canto della Crèspin è talmente caleidoscopico da riuscire a parlare anche nel regno del non detto e del sottinteso). Nel racconto del primo atto è inimitabile la violenza espressiva che la forza della sua declamazione riesce a trasmettere, così come nel monologo che ha un tono trasognato e spaventato credibile come pochi altri.
Grandissimo anche il glorioso basso finlandese Martti Talvela, che dona ad Hunding la propria immensa voce, riuscendo anche a dare al proprio personaggio una carica di umanità non sopprimibile dall’accento naturalmente autoritario.
Josephine Veasey è perfetta nella parte di Fricka, cui presta un canto vibrante di sdegno e di femminilità offesa; i suoi rapporti con Karajan furono eccezionalmente complessi (ricaviamo dalle note del libretto che la Veasey confidò ad un giornalista che, piuttosto che lavorare ancora con quell’uomo, avrebbe preferito fare…i mestieri di casa!), ma il risultato fu di spessore non indifferente e non comune nel pur ricco parterre di Fricke di rilievo.
Thomas Stewart è visibilmente interessato a far vedere tutto il percorso che porta Wotan al suo decadimento da dio altero e sprezzante ad uomo; questo cammino sarà ancora più evidente nella prova maiuscola come Wanderer nel Siegfried. Tutti coloro che dovessero rimpiangere in una produzione di questo tipo la presenza di un Hotter, possono ricredersi ampiamente. Lo spessore vocale è più da baritono che da bass-baritono, ma la voce viene piegata ad una tale varietà di inflessioni grazie all’uso sapiente della mezzavoce da generare una sensazione di straniamento nell’ascoltatore che, memore delle prove di Hotter, ne aveva mutuate anche le orgogliose certezze. Ma non si pensi ad una caricatura di dio: il sussurro di gelido disprezzo con cui fulmina Hunding è proprio quello del Signore dei Corvi in carne ed ossa cui non occorre alzare la voce per imporre la propria autorità. E il duetto finale con Brunnhilde è pieno sì di commosso rimpianto, ma anche di autorità mai messa in discussione.
Detto che le walkirie sono tutte brave e qualcuna – come la Mastilovic – addirittura sfolgorante, rimane da parlare di Brunnhilde.
Lasciamo perdere una volta per tutte ciò che concerne la mancata collaborazione della Nilsson, e concentriamoci solo su quello che riesce a dire la Crèspin, che è di una bravura da togliere il fiato. Voce non grandissima, d’accordo, ma perfetta per farci vedere la sfolgorante e baldanzosa gioventù di un personaggio che è stato – soprattutto in tempi recenti – devastato da sopranoni preoccupati solo di pestar duro negli “Hojotoho!”; ma dov’è la spensierata allegria dell’ingresso? Dov’è la tenera ed affettuosa sollecitudine di fronte ai tormenti paterni? Dov’è quell’affannosa tristezza che deve – ripetiamo, deve – screziare la solennità dell’Annuncio di morte del secondo atto?
Tutto questo la Crèspin ce lo fa sentire e vivere alla perfezione, anche se evidentemente è lei stessa al centro di un equivoco, quello creato – unica vera pecca di tutta la produzione, ahinoi – dallo stesso direttore che, avendo dato il respiro dell’autentica Poesia al ciclo, si è quasi “dimenticato” del personaggio di Brunnhilde che, probabilmente, affidato alla Crèspin per tutto il Ring, avrebbe sì pagato uno scotto in termine di decibel degli acuti, ma avrebbe veramente riformato il ruolo. Così sembra invece che lui si preoccupi di creare atmosfere di tutto riposo alla Crèspin per non metterne a repentaglio il tanto delicato settore acuto, quasi scusandosi di averla messa alla prova con un ruolo così impegnativo e forse rimpiangendo la Nilsson, cantante di straordinaria intelligenza e di raffinata ironia, ma affatto diversa nelle intenzioni e nei risultati da quanto fatto ascoltare dal grande soprano marsigliese.
Questa Brunnhilde è di fascino irresistibile, che si esplica soprattutto nell’annuncio di Morte e in tutto lo splendido finale dell’opera, quello dove il genio di Karajan e la presenza ferma e commossa di Stewart portano la musica di Wagner a vertici di poesia difficilmente ripetibili