Rheingold
Aggiunto il 15 Agosto, 2007
PREMESSA: si rimanda alla recensione della Walkiria per l’introduzione alla registrazione integrale del ciclo
L’anno dopo la Walkiria tocca all’Oro del Reno passare attraverso il Festival e la sala di registrazione, come sempre la Jesus-Christus-Kirche di Berlino che già aveva offerto un ambiente adeguato alla produzione di quel suono continuo e ricco di sfumature che Karajan chiedeva all’orchestra e ai cantanti. La squadra era già rodata e le linee interpretative – come già abbondantemente evidenziato nell’introduzione alla Walkiria – erano ben chiare nella mente del direttore sin dal ciclo prodotto per Bayreuth nel 1951: anche in questo caso, quindi, estrema contabilità, ritmo incessante ma mai angosciante, perfetta centratura delle voci sempre funzionali ai rispettivi ruoli in un’identificazione che ha pochi riscontri nella storia dell’interpretazione in disco.
Qualche variazione, seguendo una prassi consolidata: Wotan affidato ad un altro interprete, di voce più giovanile per evidenziare il carattere rapace del dio alle prese con la conquista del potere, in questo caso il cerebrale Fischer-Dieskau che fa del Signore dei Corvi un ritratto sfaccettato, intrigante, problematico quel tanto che basta e perfettamente in linea con quella patina “esistenzialista” con cui Karajan avvolge le vicende degli dei. È un Wotan che ci si immagina facilmente vestito di nero come nei fumosi bar parigini degli Anni Sessanta.
Sempre nell’ambito delle variazioni ampiamente autorizzate dalla pratica, ci sta il Loge di Stolze che, nel Siegfried, sarà invece Mime (qui un Wohlfahrt bravissimo che sarà possibile apprezzare per intero anche nel Siegfried nel ciclo di Sawallisch a Roma); in questo caso, la scelta è giustificata dal fraseggio nervoso, mobilissimo, sprezzante, ironico ed anche un filo angosciato che Stolze dà al personaggio, sempre sul filo di una mezzavoce che sconfina spesso nel falsetto o nell’urlo rauco e demoniaco (Elvio Giudici sottolinea giustamente il modo con cui Stolze risolve il “Durch Raub!” – col furto – urlato in faccia a Wotan che gli chiede come fare a prendere l’Anello dalle mani di Alberich). In tutta l’opera questo folletto si aggira come una delle più perfette esemplificazioni di quel Male talmente mascherato di buona volontà da sembrare il più perfetto dei consigli, anche se le esplosioni di malignità sono di una valenza talmente pregnante da generare un autentico sussulto nell’ascoltatore. È con Stolze che Loge acquista finalmente una personalità che va al di là del semplice personaggio; è il ruolo del “consigliori” mafioso che ci aveva fatto conoscere Francis Ford Coppola con “Il Padrino”, diplomatico quando occorre, talvolta anche aggressivo, che mantiene sempre una patina di rispettabilità anche quando consiglia al proprio capo di bagnarsi le mani nel sangue.
Il terzo elemento vocale di assoluto rilievo è la grandissima Oralia Dominguez, probabilmente la migliore Erda mai documentata nel disco: voce affascinante, ricca di riflessi ambrati e sagacemente esaltati dalla consolle di regia che dona loro un effetto di risonanza misteriosa e lontana, interprete di stupefacente modernità nel dare una patina di sgomento, rimpianto e di stanchezza (che sarà esaltata al massimo nel fondamentale duetto con Wotan – uno Stewart di stupefacente mobilità espressiva – del Siegfried).
Accanto a questo terzetto, tutto il cast è coinvolto in un gioco di rimandi e di allusioni che, a nostro parere, è virtualmente perfetto in un’opera come questa.
Kèlèmen non avrà forse l’autorità barbarica di Neidlinger che faceva del proprio personaggio un’icona della disperazione e della sconfitta; nondimeno è uno degli Alberich storici e giustamente entrato in numerose produzioni grazie ad un fraseggio petulante eppure insidioso oltre che di rara e raffinata intelligenza.
Simone Mangelsdorff è piuttosto esile, ma dona a Freia gli accenti di un’autentica disperazione oltre che di naturale e squisita sensualità.
La Fricka di Josephine Veasey, grazie anche alla perfetta propulsione dettata da Karajan, è probabilmente la più coinvolgente documentata dal disco; per di più è sempre voluttuosamente femminile, in ciò riuscendo ad eliminare quell’aura di albagia che ha sempre caratterizzato il personaggio.
Splendida per autorità la coppia di giganti di Talvela e Ridderbusch (e basterebbero solo questi due cantanti per mettere a tacere una volta per tutti chi parla di “Wagner cameristico”!...), mentre Wohlfahrt dona a Mime gli accenti di una cupa e selvaggia disperazione che avrebbero meritato anche la vetrina di Siegfried, se solo non ci fosse stato quel mostro di bravura che è Stolze. Grobe traccia l’arco dell’arcobaleno con la poesia di un eroe di Weber mentre Kerns ha nei suoi “Hedo” la violenza di un autentico dio barbarico.
Le tre Figlie del Reno, infine, cantano e scherzano con un’allegria musicalissima in un insieme fra i più belli ed affascinanti mai messi insieme per quest’opera.
Karajan non interpreta come molti altri direttori il Rheingold come se fosse la solita fucina di leitmotiv del Ring (annoiando quindi mortalmente l’ascoltatore); la sua narrazione si giova di un ritmo inquieto, sempre frammentato e ricco di suspence, riuscendo così a tener sempre viva l’attenzione dell’ascoltatore. I momenti topici sono quindi quelli in cui l’orchestra letteralmente respira con gli accenti beffardi ed ironici di Stolze o quando entra in scena Erda, la cui splendida voce è accompagnata con un respiro che sembra venire dal moto eterno della Terra.
Una visione ricca di complessità, che pulsa volutamente del ritmo della Natura, in una simbiosi che rimanda direttamente a quel Weber che ormai, come sappiamo, oltre che essere stato l’ispiratore di Wagner è anche riconosciuto dal Direttore come massimo esegeta di quel Naturalismo alla base di tutta la cosmogonia wagneriana