Mercoledì, 03 Luglio 2024

Otello

Aggiunto il 02 Maggio, 2009


Giuseppe VERDI
OTELLO

Otello NICOLA MARTINUCCI
Desdemona MIRIAM GAUCI
Jago EDUARD TUMAGIAN
Cassio MAURICIO SEPTIEN
Roderigo JOSE’ RUIZ
Lodovico MARCEL ROSCA
Montano ENRIC SERRA
Un araldo MARCEL ROSCA
Emilia MABEL PERESTEIN



Chor del Gran Teatre del Liceu
Chorus Master: A. Maspero

Childrens Chor del Conservatori Municipal Musica Badalona
Chorus Master: M. Pi

Orquestra Simfònica de Barcelona i Nacional de Catalunya
ALEXANDER RAHBARI

Luogo e data di registrazione: Centre Cultural Sant Cugat del Vallés Barcelona – Luglio 1996
Ed. discografica: Koch Discover

Note tecniche sulla registrazione: molto buona

Pregi: il terzetto dei protagonisti è di buon livello complessivo. La Gauci è fra le migliori Desdemone su disco

Difetti: la direzione è molto teatrale ma, sulle orme di Karajan, taglia il concertato del terzo atto

Valutazione finale: images/giudizi/discreto-buono.png


Il mio primo approccio con Nicola Martinucci fu – se non ricordo male – nel 1982. Il tenore pugliese era poco più che quarantenne (aveva debuttato come Manrico nel 1967) ed era sufficientemente esperto ed affidabile per arrivare a gestire anche un’inaugurazione scaligera. La voce era complessivamente piuttosto bella: di buon impasto, ottimo squillo e begli acuti penetranti, c’era solo – ad inficiare l’emissione – quello che a Roma chiamano il “pisello” e altrove la “zeppa”: cioè quella “s” che talvolta sembra una “ts” e che spesso caratterizzava anche Franco Corelli. Ma, a parte tutto, la voce era complessivamente bella e si ascoltava con piacere; inoltre competeva quasi alla pari con quella di Ghena Dimitrova che, quanto a volume, si sentiva tranquillamente sino a Piazza San Babila.
Quella fu l’occasione migliore per un’esposizione mediatica che fece di lui il tenore lirico-spinto-drammatico italiano di riferimento degli Anni Ottanta e Novanta assieme a Giuseppe Giacomini, di un anno più vecchio. Rispetto al Bepi, Martinucci vantava uno squillo maggiore, una smaltatura più luminosa del mezzo vocale e una scansione più bruciante; Giacomini aveva mezzo molto più scuro e timbricamente più suggestivo.
Entrambi, ovviamente, furono tentati dal ruolo di Otello che portarono in sala di registrazione con esiti piuttosto alterni, ma senza che nessuno dei due arrivasse a confezionare un prodotto realmente meritevole di memoria discografica.
Qui il tenore tarantino – in ottima forma vocale – si avvale della direzione di Ali (Alexander) Rahbari, direttore iraniano nato nel 1948 e assistente di Karajan a Salisburgo a partire dal 1979. Difficile sostenere che la collaborazione fra i due artisti produca lo stesso risultato di quella fra il Grande Vecchio e Vickers, però il prodotto è ben più che orecchiabile. In quegli anni Ottanta-Novanta l’unico Otello ascoltabile con un certo piacere oltre che notevole frequenza era il solito Plàcido Domingo, poiché Giacomini non ha mai confezionato un prodotto all’altezza delle attese e gli altri candidati non sono mai usciti dal giro di un’onesta comparsata (pensiamo, per esempio e tanto per stare in Italia, a Cecchele o a Bonisolli). Martinucci, con la sua bella voce luminosa è più o meno l’unico a far sentire quanto di più simile al teorico modello vocale originale, quello cioè di Francesco Tamagno e senza tentare la solita strada di rifare il verso a Mario Del Monaco. Certo, ogni tanto si sente qualche beceraggine o qualche suono un po’ ingolato, ma siamo proprio su un altro pianeta rispetto al catramoso, bitumato e sopravvalutato Giacomini.
Ciò che manca, a lui come a Giacomini e alle altre meteore italiane del periodo, è un fraseggio incisivo e fantasioso, che porti il personaggio alle vette che merita; ed è forse questo il motivo per cui, nonostante tutto, le grandi produzioni dell’epoca non potevano fare a meno della presenza di Domingo, pur con qualche difficoltà in più. Quest’Otello, di bella voce nonostante la “zeppa”, è corrucciato quando occorre e disperato alla bisogna, ma nulla di più; ed è un peccato perché, con qualche colore e qualche intenzione in più, sarebbe potuto venir fuori un personaggio di quelli che non si dimenticano. Ma questo è sempre stato un po’ il limite di tutte le prestazioni di Martinucci: quasi sempre molto ben impostate sul piano puramente vocale, ma piuttosto vuote quanto a contenuti.
Al suo fianco, come dicevamo, il direttore iraniano Rahbari che, da degno allievo di Karajan, punta molto sulla bellezza dei suoni. Se metteremo sul piatto del giradischi consecutivamente questa incisione e quella di Karajan II° Emi con Vickers, ci troveremo più di un’analogia nella ricerca di colori, nella ritmica e nell’agogica. Troveremo anche, purtroppo, la replica dell’orrore già perpetrato dal direttore austriaco che, dal meraviglioso concertato del terzo atto, elimina senza nessuna ragione plausibile tutto ciò che parte da “Una parola” di Jago sino alla conclusione: pochi minuti, ma essenziali alla comprensione della trama oltre che perfettamente inseriti dentro una delle più belle pagine mai scritte da Verdi. Nessuno dovrebbe essere autorizzato a fare simili scempi, che finiscono per incidere pesantemente sul risultato finale. Per contro, proprio come in Karajan, riscontriamo nel direttore iraniano un notevole senso dell’accompagnamento, anche se i cantanti dimostrano già di per se stessi notevole musicalità ed affiatamento: e in un’opera così difficile non è certo pregio da poco.
Miriam Gauci è maltese, nata nel 1957 per cui, all’epoca della registrazione, non ancora quarantenne. Si è perfezionata a Milano e ha debuttato con “La voix humaine” e “Traviata”. Ha cantato un po’ dappertutto in Europa e negli Stati Uniti con un repertorio quanto mai eterogeneo da lirico. Qui ci fa sentire una delle migliori Desdemone affidate al disco, superiore a tante altre molto più celebrate. Certo, la voce è un po’ piccola per gli standard cui siamo abituati, ma l’intonazione è perfetta e il gusto è squisito, esente da smancerie e da balordaggini da lobotomizzata. Il quarto atto, in particolare, con tutta quella musica che esalta i singhozzini da educanda, è condotto con gusto e fermezza secondi solo a quelli di Gwyneth Jones.
Tumagian è rumeno. Ha debuttato a Bucarest nel 1968; nel 1989 aveva fatto il secondo di Zancanaro nei “Vespri siciliani” alla Scala. Il suo Jago è molto tradizionale e ferrigno, ma anche ben cantato con voce robusta. Non si segnala per nessuna particolare innovazione interpretativa, ma nel complesso si staglia come una presenza inquietante.
Ritengo – dai nomi – che i comprimari siano tutti spagnoli se non catalani; poco conta, perché in effetti cantano tutti bene senza alterare le qualità di un prodotto che non cambia la storia interpretativa del penultimo capolavoro verdiano, ma che può essere fruito con piacere

Categoria: Dischi

 

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