Forza del destino
Aggiunto il 09 Agosto, 2010
Ricordo molto bene il periodo in cui uscì quest’edizione.
Muti era ancora da relativamente poco il direttore musicale della Scala, ma già ne era diventato il signore e padrone, osannato dai media e temuto dai (pochi) nemici, se così è lecito chiamare coloro che non riuscivano a vedere in lui il più grande direttore di tutti i tempi. E poi c’era la relativa sorpresa della scelta del soprano; “relativa”, perché in quel periodo c’era l’idea di ricavare dalla voce della Mirella nazionale, piuttosto irrobustita dall’età rispetto alle Micaele della gioventù, un soprano lirico esportabile nei grandi ruoli verdiani.
Siccome l’operazione verte soprattutto su questi due elementi, è proprio da qui che inizierei la revisione critica di quest’edizione che è complessivamente piuttosto bella anche all’ascolto odierno, ma che non riesce ad essere così drammaticamente innovativa come si sperava che fosse.
Muti dirige splendidamente l’orchestra e i cantanti, ma non l’opera, di cui coglie benissimo la potenza evocativa dei grandi momenti solistici o dei duetti, trascurando però tutto quel substrato popolare importantissimo per l’economia del dramma e a cui Sinopoli aveva dato invece rilievo affatto particolare. Intendiamoci: non è che Muti tiri via i pezzi d’assieme. È un grande professionista e lo dimostra in ogni momento, sin dalla sinfonia e passando attraverso i momenti corali, questi ultimi in particolare grazie anche all’apporto non indifferente della splendida compagine milanese diretta da Bertola con un virtuosismo quasi mistico. Però la tensione morale e sociale che esiste nelle grandi scene in cui comanda il popolo sembra che non rivesta per lui tutto il significato di cui le riempiva la grande presenza del geniale Sinopoli. Si avverte quasi uno jato fra il duetto del duello e la successiva scena popolare con il Rataplan che manca di quella proterva grandiosità anche perché la Zajic non sembra così dirompente come in altre occasioni.
Per la Freni la prospettiva non appariva improbabile, giacché di ruoli verdiani ne aveva già fatti: Aida, Elvira, Nannetta e Alice Ford, Elisabetta e Desdemona. Di questi personaggi, probabilmente il migliore – anche a distanza di anni – sembra essere Alice, in cui riusciva a infondere una sana joye de vivre campagnola, non disgiunta da una certa sensualità ruspante, che era una delizia; come lei forse solo Ilva Ligabue. Ma con gli altri personaggi si scendeva progressivamente. E se in Desdemona l’incanto funzionava ancora bene grazie allo smalto lucente della voce e ad una vocalizzazione radiosa che sembrava essere l’incarnazione stessa dell’innocenza violata; se in Elisabetta il gioco funzionava già meno, perché l’istintiva albagia che dovrebbe essere una della caratteristiche essenziali della sfortunata regina veniva clamorosamente a mancare, sostituita da una generica mestizia; in Aida, parimenti, mai e poi mai sarebbe riuscita ad evocare quella sensazione di sospensione che tanto bene riusciva ad alcune grandissime interpreti (per stare alle contemporanee, per esempio, Leontyne Price), ad onta di alcuni momenti davvero ben cantati. E quanto a Leonora di Vargas, si crea lo stesso problema che già si era visto in Elvira: la necessità di un vero soprano drammatico, cosa che la Freni non fu mai. Ci provò, più o meno lodevolmente a seconda dei gusti, forzando la propria natura di soprano lirico e la propria vocazione naturale che la portavano lontana da quelle pose da tragedienne così lontane dalla propria sensibilità. Ci provò, ma con risultati che ci sentiremmo di definire interlocutori solo per l’affetto che portiamo per questa nostra grande amica. Questa Leonora di Vargas, infatti, proprio non va.
Non va sul fronte vocale, tanto per cominciare. Prendiamo il primo atto: nel duetto con Alvaro il difficile do grave di “Io t’amo” è una nota che Mirella proprio non ha, e deve ricorrere alla solita sbracatura tanto sgradevole quanto inevitabile. Il successivo “Orrore!” è un autentico obbrobrio, aperto in pieno stile da sagra strapaesana. Ma non è che in alto le cose vadano meglio. Nel settore acuto le note ballano ahimè non poco: basta sentire il “Madre pietosa Vergine”, per di più staccato da Muti con un tempo che sarà anche filologico, ma che non aiuta per niente la povera Mirella alle prese con un grandioso fra i più impervi mai ideati da Verdi. Nel duetto col Padre Guardiano (un ottimo Plishka) i passaggi di registro sono dominati con difficoltà ed acciuffati per il rotto della cuffia. Il “Pace mio Dio” è filologico al massimo nell’eliminare il quarto “Maledizione!” di comodo per appoggiare l’acuto come fanno tutte, ma costa tanta fatica in più alla povera Mirella che, per di più, non trova mai il tono giusto; col che si perdono anche quelle smorzature in alta quota che rendevano celestiale la preghiera dell’immensa Leyla Gencer, anch’ella senza una voce per natura adatta ad un ruolo così impervio, eppure capace di ricavare quelle lancinanti dissonanze che arrivano alla fine a definire esattamente il personaggio.
Non va sul fronte vocale, acciuffato ma non definito; e, conseguentemente, non va ahimè nemmeno su quello interpretativo. Manca tutto lo smarrimento di Leonora che Mirella, donna pratica nella vita come in scena, non è in grado di infondere alla propria eroina; e manca anche, per contro, quella tragica grandiosità che potrebbe essere l’altro movente che porta Leonora a scelte così drastiche. Delirio mistico o di grandezza: niente è più lontano dallo spirito di Mirella. Santa pace, perché affrontare un personaggio così e non, per esempio, una Madame Lidoine in cui sarebbe stata viceversa grandiosa? Mistero.
Chi funziona, e molto bene invece, è Placido Domingo. Superati certi problemi di fonazione grazie alla riorganizzazione vocale che l’avrebbe portato ad affrontare alcuni dei grandi ruoli wagneriani (peraltro già sfiorati sin dal 1968 con Lohengrin), El Tenòr può sfoggiare un medium che è lussureggiante e giocarsi la parte tutta lì, gestendosi peraltro al meglio i trappoloni di quei passaggi sul settore acuto di certe frasi micidiali come, nel primo duetto con Don Carlo, “Testimone del vostro valor” e quello che segue, oppure, più tardi, “Al chiostro, all’eremo, ai santi altari, l’oblio la pace chiegga il guerrier”. L’assolo, peraltro, mormorato su un tono assorto è esemplare nella sua sobrietà, ponendosi come uno dei riferimenti assoluti per questa parte. È parimenti eccellente nei duetti con Don Carlo, grazie anche all’apporto non banale di un gran bravo baritono, troppo spesso e ingiustamente vituperato.
Giorgio Zancanaro, infatti, è davvero bravo. Voce ampia, sonora, chiara da autentico baritono verdiano: con Cornell McNeil, Sherrill Milnes e altri due o tre, uno dei pochissimi a potersi fregiare nel Dopoguerra di questo titolo senza usurparlo. Il suo Don Carlo di Vargas è probabilmente il migliore di tutta la discografia. La Ballata è cantata con tono fatuo ma sottilmente minaccioso, e il suo assolo del terzo atto è veramente un capolavoro anche senza la puntatura acuta finale di tradizione che Muti (e te pareva) espunge. L’intesa con Domingo è, come detto, veramente eccellente, di modo che i duetti sono davvero belli e perfettamente ricchi di notevole carica teatrale.
Plishka, cantante di solito non personalissimo, è uno dei più interessanti Padri Guardiani di tutta la discografia, grazie ad un fraseggio ricco di semplicità e carica umana, non disgiunto da una certa bonomia che manca alla maggior parte di quei bassi che puntano solo a far vedere il profondo misticismo del personaggio.
La Zajic ha voce ampia e ben timbrata, ma gli acuti oltre vent’anni fa non avevano ancora quella perentorietà che avrebbero acquisito negli anni a seguire.
Melitone si esprime con la vocedel compianto Sesto Bruscantini: è molto bravo e sufficientemente odioso nell’esibire una meschinità gretta e senza remissione. Il suo è un personaggio antipaticissimo e questo è già un bel giro di boa rispetto ad una tradizione di macchiette buffonesche.
Ottimo lo stuolo di parti di carattere, fra cui segnaliamo volentieri l’eccellente Trabuco del grande Ernesto Gavazzi.
Del coro abbiamo già lodato la coesione e la musicalità curate dal grandissimo Giulio Bertola; se non arriva ad essere un vero e proprio personaggio la colpa è di Muti, la cui direzione predilige altri aspetti.
Rimane da fare qualche cenno alla registrazione, molto riverberante. Essendosi svolta nel teatro, non escluderei che la cosa sia cercata, ma il gioco – in una registrazione in studio – dopo un po’ diventa fastidioso