Trovatore
Aggiunto il 08 Agosto, 2007
Ricordiamo molto bene l’attesa spasmodica che precedeva quell’inaugurazione testimoniata da questi dischi. Il Trovatore mancava da un sacco di tempo e Muti sceglieva di riproporlo ricorrendo ad un cast di giovani (eccetto il baritono, si capisce); c’era un po’ di sana rivalità fra le due primedonne designate in uno dei ruoli più carismatici di tutta la produzione verdiana; e c’era, soprattutto, il grosso enigma legato alla figura del tenore. Sarebbe stato all’altezza della gloriosa tradizione scaligera? Ma, soprattutto, avrebbe o non avrebbe avuto a disposizione il do (o, al limite, il si bemolle) della Pira, generosamente offertogli da un direttore piuttosto restio in tal senso, come testimoniavano il suo attaccamento filologico alla partitura e i precedenti di Firenze?
La risposta la ebbero pochi fortunati nella sala del Piermarini e molti, la maggior parte, attaccati alle radio o ai personal computer: il Verdi lunare di stampo mozartiano, ripulito da tutte le incrostazioni che una tradizione fra le più tenaci ed acclamate vi aveva attaccato, a cominciare proprio dal do della Pira che veniva ad essere clamorosamente eliminato, generando in chi ascoltava una sgradevole sensazione di minus proprio difficile da scansare anche perché il tenore era bravo, di voce giovanile e bella, ma non sembrava in grado di offrire in cambio una visione particolarmente illuminante che colmasse le aspettative. Era come vedere una partita di calcio bella, ricca di colpi di scena e di capovolgimenti di fronte, ma finita – come si suol dire – a reti bianche, senza cioè quel gol che permettesse alla folla di sciogliersi nell’urlo liberatorio. Urlo che, peraltro, in questo salotto di belle maniere che intendevano ridare dignità a Verdi e al suo genio creatore, ci sarebbe entrato come il proverbiale cavolo a merenda.
Muti non era estraneo al capolavoro verdiano. lo aveva già prodotto, per esempio, nel suo periodo fiorentino; protagonista maschile ne fu il bravo Cossutta, anch’egli privato del suo do (o si bemolle, a seconda delle possibilità), regolarmente fischiato come se la colpa della decisione fosse sua, e non del Maestro fanatico esegeta della partitura come dovrebbe essere (anche se, come sappiamo, in questo furore catartico del Cigno di Molfetta ci sono sempre state alcune curiose defaillances, come per esempio la scelta della lingua italiana nei “Vespri siciliani” o nel “Guglielmo Tell”, entrambe scritte – come ben sappiamo – in francese). Il suo rigore non si applica solo all’eliminazione delle note non scritte, ma anche nel ripristino di tutte le soluzioni volute da Verdi: per esempio, il riaffidare al solo soprano la ripresa del finale secondo (“Sei tu dal ciel disceso”) anziché al più incongruo unisono tenore-soprano. Non si applica invece, tale rigore, all’agogica: questo è un Trovatore che fila come un treno, fregandosene altamente delle esigenze dei cantanti (vedasi la difficoltà di Leo Nucci in “Per me ora fatale”) ma soprattutto distaccandosi da quei tempi che Verdi spesso prescriveva molto più lenti e meditati, anche nelle cabalette (qui tutte presenti con regolare ripresa, anche nelle arie di Leonora); e per avere un’idea del reale dettato verdiano bisognerà quindi rifarsi alla tanto criticata versione di Carlo Maria Giulini che, nella Pira, adotta l’esatto tempo indicato dal Peppino nazionale, ribaltando di fatto una prospettiva che ha sempre visto i direttori pestare sulla grancassa per ottenere l’effetto più nazional-popolare possibile (e Muti non si discosta affatto da questi canoni).
Non si creda però che l’interpretazione mutiana sia solo una pedissequa lettura dello spartito: tutta l’esecuzione è animata da un brivido affannoso che ben rende ragione di quel carattere lunare di cui spesso il Maestro parlava nelle interviste. È l’affannoso afflato della gioventù? Non sapremmo dire, anche perché non è il connotato che associamo precipuamente a quest’opera (come avviene invece, per esempio, con la “Bohème”), ma questo Trovatore è una corsa affannosa verso una fine già scritta, e questa è un’idea non particolarmente originale, ma realizzata alla grande come nessun’altra edizione.
L’intesa con gli interpreti è veramente perfetta; proprio per questo non si capisce la lunga indecisione venduta ai media “prima della prima” sulla scelta della primadonna: la Frittoli che si ascolta qui è virtualmente perfetta, franca, spontanea, giovanile e ingenua, in ciò molto superiore alla Theodossiu che è sempre stata molto più lambiccata e cerebrale, nella sua perenne tendenza a diventare la cantante greca più importante della Storia. Una prova talmente bella, da diventare poi limite: Barbara non si sarebbe più ripetuta a questi livelli di intensità emotiva anche nella bellezza di molte delle prove successive.
In questa inaugurazione, inoltre, i milanesi si confrontarono con una cantante che avrebbe raggiunto la piena maturità artistica solamente qualche anno dopo, quando sarebbe passata al registro di soprano; qui invece Violeta Urmana è ancora orgogliosamente mezzosoprano fornendo di Azucena una prova fra le più belle di tutta la storia esecutiva, ricca di femminilità mal repressa e soprattutto giovanile, in un panorama interpretativo solitamente popolato di vecchie befane. Le numerose note acute della parte sono tutte in evidenza, rendendo ragione del desiderio della cantante di passare al registro più acuto, ma secondo noi con una diminutio notevole nella qualità di un mezzo per sua natura molto più dotato nella corda intermedia (e la prova come Aida nell’inaugurazione scaligera del 2006 lo dimostra impietosamente). Qui, in questo Trovatore, non c’è inciso che non venga sottolineato in modo magistrale: si parte da uno “Stride la vampa” cadenzato in modo ipnotico più che allucinato (come avviene di solito), seguito da un “Condotta ell’era in ceppi” che ha lo stesso andamento, grazie anche alla magnifica intesa con Muti che la segue con un accompagnamento vibrante e commosso; e termina con un “Sì, la stanchezza m’opprime” che ha un tono meravigliosamente giusto per la situazione. Una prova ricca di affettuosità e di passione mai repressa, che seppellisce una tradizione di belve assetate di sangue.
Leo Nucci è l’unico veterano del cast. È bravo, come al solito, ma c’entra ben poco con questo Verdi notturno e lunare. La sua emissione sempre un po’ troppo braveggiante, oltre che nel naso veramente un po’ troppo oltre i limiti di sopportazione sembra rifarsi nientemeno che ad Apollo Granforte, ma senza avere nulla dell’allure grandiosamente torva del modello. Ricordiamo ancora con una punta di divertimento la sua affermazione che “Il Conte di Luna è un toro imbizzarrito da prendere per le corna”, che contraddiceva clamorosamente tutto quello che Muti faceva per rendere “lunare” e “mozartiano” (?) il “Trovatore”; e tale affermazione trovava poi pieno riscontro nelle guasconate di Leo che si buttava a capofitto nel personaggio col coltello fra i denti, dimenticando che Luna ha più o meno la stessa età di Manrico, che dovrebbe avere più presente la propria nobiltà, che dovrebbe sussultare per gli stessi dubbi ed angosce che hanno gli altri personaggi, anziché passeggiare tetragono attraverso l’opera, urlacchiando or quinci e or quindi. Ed ecco quindi un “Balen” con tutte le note al loro posto, ma pronunciato con una baldanza del tutto fuori posto, anziché con angoscia e sofferenza: questa è un po’ tutta la cifra della prestazione del glorioso Leo, che è sicuramente il più fuori a posto di un cast per il resto virtualmente perfetto per la sua funzionalità all’ottica mutiana.
Persino Giuseppini, infatti, sicuramente non fra i bassi che scriveranno la Storia del canto, esce dagli schemi tonitruanti del personaggio proponendoci un racconto del primo atto ricco di partecipazione umana e di angoscia (e qui l’accompagnamento di Muti è semplicemente magistrale).
Quanto a Licitra, non eravamo in molti a conoscerlo a fondo. Si sapeva che era un giovane tenore dotato di una delle più belle voci in circolazione, ricco di acuti naturali più che frutto di studi approfonditi, che aveva già fatto parlare di sé in alcune prove anche verdiane. Qui Licitra si rivela un Manrico ideale per la perfetta sintesi fra la bellezza abbacinante di una voce che, fra i contemporanei, ha ben pochi riscontri e l’affettuosità spontanea di un fraseggio che lo colloca immediatamente fra i “poeti” piuttosto che fra i “guerrieri”. Certo, manca piuttosto di mordente nel duetto con Azucena ed è talvolta un po’ generico: il “Mal reggendo”, uno dei punti più importanti per distinguere i veri Manrichi da quelli farlocchi, a parità di do nella Pira, viene tirato piuttosto via e concluso da una smorzatura di lana caprina (a tale proposito risentirsi quello che diceva il tanto vituperato Di Stefano nello stesso passaggio), mentre in compenso l’ “Ah sì ben mio” è assolutamente convincente e strappa al pubblico un applauso entusiasta. Fra i tanti Manrichi testimoniati dal disco, è uno di quelli più credibili per la connotazione giovanile che riesce ad infondere al personaggio. Certo, ci sono anche molto ingenuità dovute alla difficoltà di un ruolo che non si può dominare solo con l’istinto; però è una prova che appare perfettamente allineata con le intenzioni di Muti.
Di Barbara Frittoli abbiamo parzialmente già detto; certo, non è la nobil Dama dipinta dall’impressionante cavata della Tebaldi, e neppure presenta quella verità di inflessioni nevrotiche che sapeva sciorinare la Callas con Karajan, ma la varietà di chiaroscuri che screziano una linea di canto immacolata è di primissima qualità: il suo “Tacea la notte placida” è di una bellezza rapinosa che ben fa vedere la diretta filiazione di quest’aria dalle grandi arie donizettiane; e la scena dell’Aliaferia vive di un’inquietudine che non ha di sicuro tutte le implicazioni psicotiche messe in campo magistralmente dalla Callas (probabilmente la più grande interprete di sempre del ruolo), ma è molto “moderna” nel far vedere una protagonista che ben potrebbe figurare in un film americano (una specie di Michelle Pfeiffer trepida e dolcemente incosciente).
Molto bene i comprimari e splendido il coro diretto da Gabbiani in un’edizione in cui, forse, il vero limite è quello di non riuscire a riformare la storia esecutiva del “Trovatore”: la tradizione, la tanto vituperata tradizione, ha già troppi interpreti storici al proprio arco