La Gioconda
Aggiunto il 20 Febbraio, 2018
“La si puo prendere per quello che è, “Gioconda”: come l’opera giusta al momento giusto, ed apprezzarne il bello in una doppia/tripla rievocazione ricostruttiva del suo momento giusto, della sua apparizione - tecnicamente perfetta- faticata ma tempestiva al momento giusto, la sua quiescenza una volta passato il momento.”
Così Giovanni Morelli e Marzio Pieri salutarono il ritorno dell’opera alla Scala di Milano nel 1997.
Un’opera come “La Gioconda” è di quelle, non sono poi tante, che inducono a riflettere che, quando si parla di un capolavoro, non s’intende mai soltanto di un capolavoro che, o perchè, renda giustizia a premesse, e pretese, d’ordine artistico ed estetico. Capolavoro va sempre inteso in un senso piuttosto extraestetico che riguarda l’uso possibile di un' opera d’arte, la cui vitalità o esemplarità risiede proprio nel porsi all’inizio di un arco, di una parentesi non assoluta.
Dopo questo preliminare che aiuterà a capire le ragioni di una “Gioconda” oggi, va detto anche mi sono messo a studiare seriamente “La Gioconda” in vista del ciclo di rappresentazioni del circuito lirico emiliano. È un’opera che ormai viene montana raramente in teatro e il debutto nel ruolo di Enzo dell’ormai globale Francesco Meli rende l’occasione succosa per verificare quanto detto alla prova teatrale. Per farlo mi sono accostato a una delle ultime registrazioni presentate in tempo cronologico in disco presenti sul mercato per fare poi alcune considerazioni su “La Gioconda” oggi, nel 2018.
Il titolo di per sè e Meli sono sicuramente un’attrattiva per muovere un melomane errante, anche se non sono sufficienti per farne “La Gioconda”. Infatti Ponchielli recrimina un soprano con i controfiocchi per il ruolo eponimo, un baritono crudele nell’intenzione ma non rude vocalmente per Barnaba, un mezzosoprano dolce e appassionato quale Laura, nonchè un contralto di buona dote e un basso nobile (alla Filippo II per intenderci) per i ruoli della cieca e di Badoero. Inoltre ci vuole un direttore sensibile che creda in questo repertorio, spesso bistrattato, e che comunque riceverà dalla sua buoni squarci sinfonici per mettersi in mostra. Ah, e in teatro servirebbe un regista che non si limiti a fare dell’opera il solito carnevale veneziano.
La registrazione che abbiamo fra le mani credo sia un vero squarcio di novità soprattutto partendo dalla direzione del compianto Marcello Viotti. Il direttore svizzero credo azzecchi in pieno l’interpretazione di questo titolo: non dare preminenza al lato vocale, ma anzi inserirlo in un piano teatrale e sinfonico ben determinato. Innanzittitto Viotti azzecca sempre i tempi più corretti, lasciando da parte ogni rigore metronomico nelle parti più liriche e gestendo come un magma infuocato le azioni da drammone. Molto belli anche i cammei che compongono l’ambientazione veneziana, che Viotti ripulisce da ogni caccola folcloristica per creare la giusta atmosfera teatrale e, quasi fosse un effetto 3D, ci permette di muoverci agilmente tra calli, canali e campi. E poi Viotti riesce nell’impossibile: ricreare la vera storia di Gioconda. Cosa difficile visto che “La Gioconda” è spesso tacciata di essere un’opera-mosaico, un Grand Opera all’italiana, poco uniforme, composta da molti tasselli che è difficile tenere insieme. Viotti ci riesce e la sua è una lettura multiforme e allo stesso tempo unitaria del dramma umano di Gioconda. Molti si chiedono: ma alla fine “La Gioconda” di cosa parla? Viotti ce lo fa intuire fin dal preludio: del dramma interiore dell’eroina eponima, fino ad arrivare al suicidio. La dolcezza e la mitezza insegnatele dalla madre cieca viene corrotta dall’ambiguità e dalla doppiezza di Barnaba, ma Viotti ci da una lettura chiara e definitiva dal punto di vista morale: il comportamento di Gioconda vince sempre, anche se alla fine sembra che Barnaba sia il vincitore e sia pronto per un altro delitto. La lettura di Viotti è un capolavoro e una pietra miliare della storia operistica che merita da sola di conoscere questa registrazione.
Le meraviglie di questa registrazione però proseguono proprio con il ruolo eponimo: Violeta Urmana è una grandissima Gioconda, che ha sicuramente contribuito a impreziosire la storia discografica di questo ruolo. Spesso, come già accaduto, si è optato, a mio avviso in modo azzeccato, alla scelta di un mezzosoprano per il ruolo di Gioconda, anzichè un soprano vocalmente più pesante. Forse l’unico appunto che possiamo fare è che la Gioconda della Urmana non si differenzia poi molto dalle altre voci femminili in campo, ma questo è un piccolo neo che si accetta volentieri rispetto alla prestazione magistrale. Diciamolo subito: non abbiamo nessuna nuova Callas o Caballè, che in questo ruolo hanno fatto davvero la storia, ma abbiamo un’inteprete che non si è accontentata di fare di Gioconda un’antologia basata sui gravi torniti di “Suicidio!” o dell’urlo “é un anatema”. La Urmana cesella il personaggio a mio parere sui grandi duetti con Laura (atto II) e di quello struggente con Enzo (nel terzo atto): nel primo direi raggiungere l’acuto della prestazione ove può mostra la faccia multiforme del personaggio, a cui la propria voce calza a pennello, tra sferzate d’ira e invidia e pie morbidezze quando si accorge che ha davanti a sé la salvatrice della madre, il tutto unito da un timbro davvero accattivante, brunito e perfettamente misterioso, in linea con le cangianze delle brumose e misteriose notti lagunari. Una Gioconda davvero di maiuscola presenza umana, forse a volte poco selvaggia e passionale, ma di indubbia statura artistica.
Violeta Urmana trova compagno che più perfetto non si potrebbe in Placido Domingo. Dopo la registrazione video del 1986 da Vienna, Domingo consegna con questa registrazione la sua prima incisione in disco e si supera: Domingo è l’Enzo per eccellenza, è Enzo stesso. Credo che Domingo giochi la carta che invece non ha giocato la Urmana: il suo timbro così fascinoso, magico, aureo oserei dire, in questa registrazione è tutto al servizio nel rendere Enzo come un personaggio che vive di passione, di fantasie, di non-realtà, eccitato, ansioso, impulsivo, al contrario invece del carattere macchinoso di Gioconda. Da questo punto di vista forse la scelta della Urmana è condivisibile e crea ancor più un forte legame con l’interpretazione di Domingo. Domingo attacca con un “assassini!” che sa molto di eroico, di nobile, ma anche di completo distacco dalla realtà. Questo è il personaggio di Enzo e Domingo ce lo fa capire quanto meglio non sia possibile. In ogni sua frase ci passa il messaggio (molto riuscito a tal proposito lo scoppio lirico durante il duetto con Barnaba nel primo atto) e anche lui, come già detto per la Urmana, non si limita a darci “catalogo” dei brani noti. Detto ciò comunque il suo “Cielo e mar”, cantato spesso a fior di labbra, è da pelle d’oca, anche grazie a una comune di intenti con Viotti. Nonostante i grandi che hanno inciso quest’opera (Pavarotti - forse uno dei suoi personaggi meno riusciti, Del Monaco, Di Stefano, Corelli, Bergonzi - credo il miglior Enzo di sempre, che al contrario di Domingo punta invece sulla nobiltà di rango di Enzo) riesce a dirci qualcosa di nuovo forse anche grazie a Viotti: Domingo ci mette dalla sua il carattere trasognante e fantasticante, Viotti inserisce il cantante-attore Domingo in una visione di respiro più teatrale. Questo è davvero un gran punto forte della registrazione presente.
Per continuare con le cose lodevoli della registrazione: Luciana D’Intino è erede di una grande tradizione di mezzi italiani (Stignani, Barbieri, Simionato, Cossotto) tutti dediti con attenzione al repertorio verdiano, con dalla loro il neo di offrire spesso prove poco sfaccettate, sia dal punto di vista timbrico che interpretativo. La D’Intino non fa di certo dimenticare le Laure del passato e meglio dei nomi citati, però ci mette dalla sua un’efficacia non comune con l’intento di rendere comunque la visione di Viotti. Il suo “Stella del marinar” non farà gridare al miracolo, ma il fraseggio è quanto meno verosimile e ben studiato, anche se non mostra quei caratteri di finezza, delicatezza e debolezza che il personaggio dovrebbe assumere. Comunque la scelta di includere la D’Intino è sensata e l’apporto della sua esperienza nel repertorio alla registrazione si sente ed è cosa buona.
Iniziamo a questo punto con le note dolenti: Elisabetta Fiorillo assume la breve parte della Cieca. La sua estensione vocale dovrebbe essere molto simile ai ruoli solitamente assunti anche da Luciana D’Intino o da Violeta Urmana e condivide con loro anche l’età anagrafica (su per giù), ma la sua prestazione è un poco deficitaria, avendo gli acuti pressochè afoni e con una voce che in generale soffre di un vibrato molto pronunciato. E così quella perla che è “Voce di donna” viene praticamente buttata al vento, ed è un gran peccato perchè non basta essere malinconici, tetri e depressi per far riuscire una Cieca.
Roberto Scandiuzzi mi ha lasciato non poco amaro in bocca, nonostante la parte di Badoero sia molto corta e sia un nulla dal punto di vista di complessità vocale e interpretativa, nonostante il “Sì, morir ella de’!”, una reminescenza verdiana di sicuro valore. Le precedenti registrazioni verdiane di Scandiuzzi erano davvero esemplari (su tutti il suo Filippo II registrato con Haitink e il buon Roger con Luisi) e al tempo di questa registrazione de “La Gioconda” era nel pieno della maturità vocale. Conoscendo poi il gran professionista che è ancora tutt’oggi, possiamo desumere fosse per lui quello un periodo di affaticamento o comunque avesse qualche problema da risolvere. Resta il fatto che il suo Badoero rimane ahinoi ingiudicabile.
E lasciamo per ultimo il Barnaba di Lado Atanaeli. Dotato di voce ipertonante, vigorosa e iperbolica, il baritono georgiano possiede un buon italiano e buona intenzione. Peccato che canti tutto forte e non costruisca il ruolo su una nota di doppiezza che personaggio richiede. Barnaba non è Scarpia, non ha dalla sua il potere di un ruolo, non può dare giudizi dogmatici. Deve giocare sul doppio gioco, sull’infingaria, sull’essere sempre sul filo del rasoio, così anche la voce deve essere subdola. “Maledici? Sta ben… l’amor t’accieca” e la scena della bocca del leone non sfrutta quest’idea e ne esce un Barnaba troppo caricaturale, innaturale. “O monumento!” non rende nemmeno lontanamente il carattere subdolo di questo personaggio, tanto è cantato monotamente. Così il confronto con la storia delle registrazioni diviene impietoso per Atanaeli: impossibile per lui anche solo avvicinare Milnes, Cappuccilli o Warren, quest’ultimo che definirei il miglior Barnaba lasciato alla memoria del disco.
Buoni Paolo Battaglia e Kristian Benedikt, che per altro oggi sta avendo una buona carriera principalmente legato al ruolo di Otello.
Magnifica la gestione dei cori, che danno dapprima una perfetta idea del vivace clima festaiolo di Venezia (i cori interni e “a parte” della scena principale nell’atto I), ma poi riescono a creare vera atmosfera marinaresca nel secondo (appunto la bellissima marinaresca dell’inizio atto II). Molto ben riuscita e ormai giustamente nostalgica anche la barcarola in lontananza dell’ultimo atto (“Ten va, serenata”) che fa da tappeto sonoro all’ultima sfida tra Barnaba e Gioconda.
Un peccato che questo titolo non venga molto rappresentato e nemmeno inciso in studio. Questa registrazione è di fondamentale importanza per capire quale sia “La Gioconda” dal punto di vista culturale più vicina al nostro gusto odierno, anche se ormai tutti i cantanti nel cast hanno abbandonato le scene oppure sono passati ad altre tipologie vocali.
Spero che qualche grande teatro si faccia carico di mettere in piedi la rappresentazione e che possa essere poi registrata per lasciare traccia di quale sia l’impostazione su questo ruolo, una volta così popolare e oggi relegato in soffitta, per i futuri anni.
Francesco Meli ci darà la sua idea di Enzo a breve, forse per Kaufmann è ormai tardi assumere questo ruolo. Come Gioconda l’unica oggi che possa prendere su di sé questa croce per traghettare il ruolo nel futuro e fargli assumere nuova gloria è Anna Netrebko, così come una Laura nuova ed interessante potrebbe essere Elina Garanca. Avere un buon Barnaba è forse più difficile: Luca Salsi potrebbe essere valido, anche se il suo ultimo Gerard ha lasciato a desiderare, così come il prezzemolo Lucic. Anche puntare su Sgura potrebbe lasciar delusi. Come direttori invece abbiamo almeno una terna: Chailly se vogliamo un lettura tecnicamente perfetta e quanto meno attenta dal punto di vista filologico, ma senza voli pindarici; Chung se al contrario vogliamo puntare su moti di fantasia e sull’intepretazione (abbiamo visto come è ben avvezzo a titolo “veneziani” e sarebbe bello sentire raccontare ancora un altro lato di Venezia, città per altro a cui è molto legato); Mariotti se vogliamo avere un’idea nuova, dinamica e completamente fresca, scevra da modelli. E lo stesso per quanto riguarda la regia: McVicar per un’oleografia da Terzo Millennio, ma ci sta per un’opera così poco frequentata e che oggi ha così poca storia registica; oppure Loy e Tcheniakov per una lettura più sfaccettata; o ancora affidare a Michieletto la lettura di una storia della sua Venezia.
E perchè la Scala non la potrebbe recuperare per un 7 dicembre? Del resto gli elementi per essere “opera da Prima” ci sarebbero tutti: opera di buona lunghezza; impiego delle masse corali e anche del corpo di ballo e dell’Etoile; opera da grandi voci. E mi pare che possa essere nelle corde dell’attuale direzione del teatro che sta puntando molto sul recupero del repertorio italiano in tutte le sue forme.
Stiamo a vedere cosa succederà in futuro. Per ora accontentiamoci della coraggiosa scelta di Piacenza e di Meli che debutterà un ruolo così bello e passionale in un teatro di provincia che sta dando buone soddisfazioni nell’ultimo biennio.
Fabrizio Meraviglia