Trovatore
Aggiunto il 17 Giugno, 2007
Un Trovatore che presenta il debutto al Met di due cantanti leggendari, destinati a diventarne stelle di prima grandezza e già spavaldamente pronti a fondarsi in cima ad una classifica che, sin dal loro comparire sulla scena, li ha eletti ad interpreti ideali dei rispettivi ruoli.
Nello specifico:
- la Price è interprete ideale di Leonora non meno della Callas, rispetto alla quale vanta una maggior attrattiva timbrica e un minor scavo della parola, a causa anche della fantasiosa pronuncia della lingua italiana
- Corelli ha dalla sua le doti che abbiamo sempre amato: voce torrenziale e acuti folgoranti che si alternano a estasiate smorzature
Rimane quindi da chiedersi se questo sia un Trovatore ideale, di riferimento assoluto; la risposta è no.
Non lo è, innanzitutto, per la direzione d’orchestra che è di buon livello globale, ma che fa vedere troppo la traccia del routinier che si accontenta di seguire i cantanti; negli ultimi anni abbiamo fatto troppi e tali passi da gigante su tale fronte per non avvertire pesantemente lo iato con il pressappochismo degli anni che furono. Certo, si potrebbe obbiettare che, dopotutto, dato il contesto vocale, chi se ne frega. Vero. Ma onestà ci impone di sottolineare tutto ciò che in diverse epoche esecutive viene tenuto in non cale a stretto beneficio di altre componenti.
Ma questo Trovatore non è di riferimento nemmeno, diciamocelo, sul fronte vocale. E qui, probabilmente, trattando dei due protagonisti, siamo costretti a ripetere quello che abbiamo già detto altre volte: un conto sono le voci straordinarie, un conto è quello che queste voci vogliono dire.
E se con Leontyne Price siamo comunque dalle parti di un’eccellenza assoluta in virtù di un’emissione di per se stessa straordinariamente adatta alla bisogna, nel caso di Corelli dobbiamo constatare che si tratta di un adattamento. È vero che l’emissione è qui molto più asciutta di quanto non sarà successivamente (Milano o Vienna, per dire), ma è indiscutibile che la lagna non si addice a Manrico come già avevano dimostrato altri interpreti.
Poi, per carità, niente e nessuno ci impedisce di esaltarci di fronte a questo colossale Bronzo di Riace musicale che risuona come le campanone di Notre Dame, ma ai singulti ci eravamo disabituati da un bel po’.
Quali possono essere le ragioni di questo ritorno ad istanze che credevamo morte e sepolte?
Una reazione all’imperante invasione del declamato di cui erano alfieri – almeno in Italia, e per vie diverse – Del Monaco e Di Stefano?
E, con ciò, il tentativo di affermare in modo perentorio le ragioni della voce onnipotente?
O semplicemente una questione di cattivo gusto personale?
Non lo sapremo mai, e forse non mette nemmeno conto di parlarne. Il Manrico di Franco Corelli è giustamente troppo celebre per essere liquidato in poche parole. Solo che in un momento come questo in cui siamo tenuti a fare del revisionismo, siamo anche costretti a scalfire i piedistalli su cui si è depositato uno strato non indifferente di polvere, non senza chiederci – ora come in tutte le occasioni in cui ciò si verifica – le ragioni di un ritorno a modelli stilistici superatissimi.
Completa il cast un buon Sereni, che canta bene e con gusto, ma anche con personalità piuttosto piccina; Wildermann che fa la voce grossa nel racconto di Ferrando; e Irene Dalis che tonitrueggia anche lei, ma lo fa con buona grana vocale.
Rimane da segnalare la presenza, alla voce Ines, di una signora che negli anni a venire farà molta strada, lasciando una propria personalissima traccia nel percorso esecutivo: stiamo parlando, ovviamente, di Teresa Stratas, la cui presenza in questo contesto, pensando ai ruoli futuri, è quantomeno curiosa