Trovatore
Aggiunto il 29 Maggio, 2006
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in francese
Per chi, come me, ama pazzamente i dischi antichi e le voci del bel tempo che fu, questa è un’occasione d’oro, a condizione che si riesca a passare sopra un magma sonoro di scrosci, gracchi e distorsioni di ogni genere.
La storia di questi dischi è particolarmente interessante. A partire dal 1911 la celeberrima casa discografica francese Pathé si buttò nell’impresa di registrare undici opere complete e due lavori di prosa in una collana intitolata “Le Théâtre chez soi”. Le opere liriche erano: Carmen (1911), Faust (1911), Trouvère (1912), Traviata (1912), Galathée di Massé (1912), Favorite (1912), Rigoletto (1912), Frères Danilo di Nouguès (1912/3), Noces de Jeannette di Massé (1922), Manon di Massenet (1923). Una curiosità sulla lista: l’opera di Nouguès fu commissionata all’Autore (a me sinora sconosciuto) espressamente per finire sul disco, e non per rappresentazione teatrale. Il procedimento d’incisione era piuttosto ancestrale, anche per i non elevati standard dell’epoca. La prima incisione della traccia audio veniva effettuata su cilindri di cera. Il passo successivo consisteva nel trasferimento della traccia su dischi sempre di cera, che costituivano il master per il disco da stampare. Il trasferimento fra i cilindri e il disco era di tipo acustico: chiaramente la qualità del prodotto finale ne risentiva oltremodo. A ciò si aggiunga uno scarso controllo in sede di masterizzazione: la qualità dell’audio dei dischi poteva andare dal brillante al quasi inascoltabile. Per il riversamento di questo Trouvère sono state utilizzate varie fonti, in modo da ottenere un suono globalmente ascoltabile. E, calcolando che l’opera è stata incisa in trentotto facciate, il lavoro eseguito dalla Marston non è stato sicuramente banale.
Come si può vedere, nella locandina non è segnalata l’orchestra: si tratta infatti della solita banda di pochi elementi, composta soprattutto di fiati e percussioni, con strumenti alternativi agli archi in grado di ricrearne in qualche modo l’impasto timbrico, ma anche in grado di passare attraverso l’incisione acustica.
La versione scelta è quella francese, nella sua completezza (quindi compresi i balletti e la ripresa finale del Miserere), ma al netto dei tagli di tradizione che si usavano anche allora. Nessuna pretesa filologica, sia ben chiaro: questa preziosa incisione discografica ci interessa solo per le voci rappresentate e in quanto documento archeologico preziosissimo, specchio di come si cantava ai tempi che furono, e come tale riserva qualche sorpresa interessante.
Qualche notizia sui cantanti, desunta soprattutto dal book di accompagnamento.
Jane Morlet nacque il 22/1/1879 ed era figlia di un noto baritono che spaziava fra opera e operetta. Debuttò a Montecarlo nel 1906 nella prima mondiale del Don Procopio di Bizet. Sempre per la serie della Pathé, incise anche la Traviata. Ci presenta una Leonora di voce forse un po’ più chiara di quanto siamo abituati, ma di intonazione purissima e di un nitore che – pur attraverso gli scrocchi e i fruscii – toglie letteralmente il fiato. Una cantante di primissimo ordine e, direi, una Leonora di assoluto riferimento anche per i notri tempi.
Ketty Lapeyrette, nata Catherine, nacque nei Pirenei il 23/7/1884. dopo gli studi al Conservatorio di Parigi, debuttò come Dalila all’Opéra nel Gennaio del 1908. affrontò sostanzialmente tutti i più importanti ruoli da mezzosoprano, compresi quelli wagneriani. Cantò nelle prime parigine del Rosenkavalier (Annina, 1927) e Elektra (Klithämnestra, 1932). Cantò anche alla Scala e al Covent Garden. Dopo il ritiro dalle scene, si dedicò all’insegnamento al Conservatorio. Morì a Parigi il 2/10/1960. La sua Azucena è di voce piuttosto giovanile e tende più al falcon che al mezzosoprano. Le note acute sono piene, timbrate e svettanti. Il piglio interpretativo è imperioso, ricco di pathos e di veemenza
Charles Fontaine nacque in Belgio il 24/5/1878. Studiò a Bruxelles e debuttò nella stagione 1903-04 con ruoli come Don José, Faust e Des Grieux (non so se quello di Massenet o di Puccini). Nel 1909 debuttò al Covent Garden come Sanson, mentre nel 1911 fece il suo ingresso all’Opéra come Raoul. Seguirono altre scritture per ruoli che andavano da Rossini a Wolf-Ferrari. Morì l’8/6/1955. Il suo Manrico è un giovane ribelle, veemente e impetuoso. La voce è una frusta che sale al do della Pira senza il minimo sforzo. Se vogliamo, manca qualche sfumatura nell’Ah sì, ben mio ma, in compenso, il Mal reggendo toglie letteralmente il fiato. Un’interpretazione al calor bianco, come si intuisce dovesse essere anche quella del celeberrimo Leon Escalais (1859-1941), di cui viene fornita in appendice la Pira in un’incisione Fonotipia del 1905
Jean Noté, anch’egli belga, nacque il 6/5/1859. Debuttò a Lille nel 1885. Cantò nei teatri di provincia per diversi anni, prima di fare il suo debutto all’Opéra nella primavera del 1893 come Rigoletto. Anche lui comparve al Covent Garden (1897) e addirittura al Met, per una stagione che comprendeva dieci Concerti della Domenica e venti opere, fra cui Faust, Manon, Carmen. A proposito di quest’ultima, val la pena di citare il cast che comprendeva: Maria Gay (Carmen), Geraldine Farrar (Micaela) e Enrico Caruso; dirigeva Arturo Toscanini. In Rigoletto, invece, cantò con Frances Alda (Gilda), Louise Homer (Maddalena) e Alessandro Bonci (Duca). Come dire: i bei tempi andati… Ci propone un Conte di voce timoratissima, naturalmente estesa, ricca di armonici
Robert Marvini è forse il meno interessante della compagnia. Cantò soprattutto a Montecarlo del periodo fra il 1908 e il 1928. Il suo Fernand non brilla per particolari attrattive e gli preferisco nettamente Juste Nivette che compare in una selezione finale (registrazione Odeon del 1907)
François Ruhlmann, il terzo belga della compagnia (nato Franz nel 1868), fu direttore dell’Opéra-Comique dal 1905 al 1913, poi si trasferì all’Opéra nel 1916, ove rimase sino al 1940. Chiaramente non è possibile esprimere un giudizio sui valori messi in campo dal direttore d’orchestra in un contesto come questo, ove di orchestra ce n’è ben poca, ma si può dire che il direttore belga assembla le voci dei fuoriclasse a sua disposizione con notevole buon senso ed evitando che la registrazione degeneri in un siparietto per ognuno di essi
Complessivamente, quindi, abbiamo fra le mani non la cucitura dei momenti topici del Trovatore (anzi, del Trouvère), bensì un vero e proprio tentativo di incisione, anche se con la pesante ipoteca dei sistemi di registrazione. E così, se nulla possiamo dire circa la reale estensione e potenzialità di ognuno dei cantanti che si cimentarono nell’impresa, data l’estrema compressione del suono; e se nulla, in più, possiamo dire circa una traccia interpretativa comune che renda quest’incisione immediatamente riconoscibile sul piano stilistico (come sarebbe accaduto invece con l’avvento delle incisioni elettriche e, quindi, con una maggior presenza orchestrale); molto invece possiamo dire sullo stile esecutivo dei cantanti che, nel loro particolare, erano già affermati all’epoca della registrazione e che molto avrebbero detto nell’ambito dell’interpretazione operistica francese.
E così corre fatto di elevare un plauso globale all’estrema asciuttezza stilistica, che evita qualunque esagitazione di stampo veristicheggiante e che, anzi, afferma le ragioni di un canto morbido, vellutato, splendidamente appoggiato sul fiato, tendenzialmente già aperto in qualcuno (come la Morlet o la Lapeyrette) ma senza che tale apertura infici mai la qualità di un’emissione pulita e ovunque affascinante.
Particolarmente interessante, da questo punto di vista, mi sembra essere Jean Noté che, nel mio personalissimo cartellino, si colloca nelle primissime posizioni fra coloro che hanno interpretato il Conte di Luna dando al personaggio quella connotazione di inquieta gioventù che deve essere fatta percepire allorquando si consideri che, dopotutto, era il fratello di Manrico; ma opportunamente temperata da un’emissione nobile, da vero baritono grand-seigneur, che deve rendere ragione della nobiltà del personaggio.
La stessa inquieta gioventù è splendidamente resa anche dalla Morlet, che ricama meravigliosamente bene i propri momenti solistici, con l’ausilio anche di qualche interessante sfumatura (esiterei a definirle mezzevoci, data la tecnica di registrazione).
Quanto alla Lapeyrette, sappiamo che trattatasi di cantante storica nella più piena accezione del termine, e qui colta nel pieno fulgore dei propri mezzi. Certo, oggi siamo abituati ad Azucene più invasate e di voce più violenta, che tendono a rappresentare il loro personaggio come una vecchia invasata menagramo; qui è ancora una donna nel fiore degli anni, che canta perentoriamente ma senza mai rinunciare alla propria femminilità.
Charles Fontaine è forse colui che dipinge il proprio personaggio nel modo più convenzionale, ma lo fa talmente bene, con tale metallo, da risultare eccezionalmente appropriato.
Concludendo, una splendida occasione per ascoltare la vecchia scuola francese del canto lirico, in un’opera di cui viene fornita un’esecuzione ancora oggi di notevole classe e, oserei dire, di assoluto riferimento.