Lunedì, 25 Novembre 2024

Turandot

Aggiunto il 15 Febbraio, 2007


Giacomo Puccini
TURANDOT

•Turandot JOAN SUTHERLAND
•Calaf LUCIANO PAVAROTTI
•Liù MONTSERRAT CABALLÉ
•Timur NICOLAI GHIAUROV
•Altoum Sir PETER PEARS
•Ping TOM KRAUSE
•Pang PIER FRANCESCO POLI
•Pong PIERO DE PALMA
•Un Mandarino SABIN MARKOV
•Il Principe di Persia PIER FRANCESCO POLI


John Alldis Choir
Chorus Master: John Alldis
Wandsworth School Boys Choir
Chorus Master: Russell Burgess

London Philharmonic Orchestra
ZUBIN MEHTA

Luogo e data di registrazione: Kingsway Hall, London, Agosto 1972
Ed. discografica: Decca, 2 cd a prezzo pieno

Note tecniche: registrazione tecnicamente perfetta
Pro: tutto, ma in particolare la prestazione di Joan Sutherland
Contro: nulla
Valutazione complessiva: images/giudizi/eccezionale.png

In fondo è l’uovo di Colombo: come far uscire un’opera come questa dalla routine di voci ipertrofiche di cui è costellata la sua storia esecutiva, con particolare riferimento alla protagonista?
Semplice: si sceglie la più importante, straordinaria, iperbolica e lunare vocalista belcantista della Storia e le si chiede di “cantarlo” come se – anziché “In questa reggia” – stesse attaccando il sol maggiore di “Casta Diva” e di affrontare Calaf con lo stesso piglio con cui la sacerdotessa druidica pronuncia il suo “In mia man alfin tu sei”.
Il risultato è – manco a dirlo – affascinante sul fronte del risultato e tutto sommato nemmeno particolarmente discutibile dal punto di vista stilistico, se si considera che dopotutto, come direbbero i Tre Ministri, “Turandot non esiste/Non esiste che il niente/nel quale ti annulli”. Trasformare la gelida Principessa in una specie di parafrasi, un simbolo, è un’idea tanto geniale da sembrare quasi banale, invece è sostanzialmente la prima volta nella Storia del disco che viene tentato un esperimento del genere destinato poi, chissà perché, a rimanere un vicolo cieco, un non sequitur. È sicuramente vero che di Joan Sutherland non ne nascono ogni giorno, per cui riuscire a trovare una combinazione così magica non è qualcosa che esista a disposizione di un produttore ogni giorno; ma è anche vero che – Karajan a parte che, con la genialità un po’ egotista che gli era tipica, tenterà di essere più realista del re, riuscendoci solo in parte – la strada battuta è sempre stata quella del sopranone ipertrofico che, invece che un simbolo astratto di una felicità perduta da riscoprire, evoca piuttosto realtà terragne di virago dalla sberla facile e il cui urlo non è quello dell’angoscia della verginità perduta ma piuttosto il suono di una più prosaica Vuccirìa.
Ma qui, be’, qui siamo dalle parti della perfezione formale in un ruolo che non ha mai conosciuto prima – né mai la conoscerà poi – una protagonista in cui coesiste così perfettamente l’urlo della disperazione, la calma perfetta del serial killer e l’astrazione di chi è realmente qualcosa di non umano. È in definitiva l’unica Turandot per la quale arriviamo a pensare credibile il movente della storia dell’ava stuprata dagli invasori, perché giammai lo crederemmo possibile per una Nilsson o – si parva licet – per una Marc o una Sweet. L’unico grosso problema, se vogliamo, è di tipo filosofico: una protagonista del genere non può arrivare a sciogliersi d’amore nel terzo atto. C’è da dire, peraltro, che tale problema rimane irrisolto anche per Puccini che – come noto – non riesce formalmente ad andare oltre la morte di Liù che rappresenta il classico “happy end” delle sue opere; ci si perdoni l’ossimoro, ma sappiamo bene quanto catartica possa essere l’immolazione di un’eroina per il musicista lucchese.
Quindi, l’idea veramente geniale è quella di restituire a Turandot una dimensione lontana, come l’eco degli strumenti esotici che ne accompagnano il canto straniato, così lontano dalla sensibilità di un autore che sarà ossessionato sino alla fine da questo personaggio sino a farne un problema non risolto, e che anche il finale di Alfano e Toscanini contribuirà a confinare in una generica estroversione che le appartiene solo di margine; perché – e lo vediamo bene nel canto della Sutherland – apparentare la Principessa ai grandi ruoli Pasta, con le loro malinconie e le arcane dissonanze, è cosa affatto diversa che sfogare il gelo del cuore in un canto teso e abbacinante di cui cogliamo solo la superficiale iridescenza. Questa Turandot è parente di Norma, ma anche della ben più decadente Lakmè, o di Esclarmonde e persino di Ophelie; ed è intuitivo come questo coacervo culturale, di cui Joan Sutherland domina magistralmente la materia grezza, possa concretizzarsi in un quadro completamente nuovo che sulle prime inevitabilmente sconcerta, ma poi affascina irrimediabilmente. E stupisce solo che nessuno si sia più cimentato su questa traccia, preferendo insistere solo sulle tante, troppe epigone di Eva Turner o Birgit Nilsson; stupisce – dicevamo – ma non più che tanto ove si consideri, come già poc’anzi suggerito, che la Sutherland è stato un apax nella storia del canto.

Il resto del cast è grandioso, pur se non così singolare come la protagonista.
Si va da un Pavarotti che canta splendidamente, sforzandosi di non gravare solo sul privilegiato aspetto vocale, ma anche di sfumare e ammorbidire un’emissione che, a quell’epoca, era veramente quella più bella del mondo (a stare ovviamente alle voci tenorili). C’è tutto quello che un Calaf ideale dovrebbe avere. O meglio: mancherebbe solo quel minimo di mistero che, per esempio, Bjoerling sapeva profondere a piene mani nella sua interpretazione; ma già così è straordinario.
Montserrat Caballé è la grandissima vocalista che sappiamo. La sua Liù è un prodigio di pianissimi, di voci che riproducono il movimento delle foglie cadenti, di minuzie da haiku. Mancherebbe un po’ di verità drammatica, quella che – quando voleva – sapeva infondere ai suoi personaggi (stando al Belcantismo di cui fu protagonista tanto quanto la stessa Sutherland, fu sicuramente più famosa per i ben più aggressivi e sbalzati ruoli Ronzi de Begnis che non per i Pasta), ma chapeau di fronte ad una prestazione così intrinsecamente bella.
I comprimari sono tutti superstar, ma dobbiamo citare obbligatoriamente il più bell’Altoum testimoniato dal disco: è sir Peter Pears, che fa di questo personaggio un’icona ieratica, solenne e misteriosa.
Dirige il tutto straordinariamente bene, con ricchezza di colori e con mordente espressivo un ispiratissimo Mehta, che potrebbe fregiarsi della palma di miglior direttore di quest’opera se, qualche anno dopo, un ancora più inquietante Herbert von Karajan non ci aprisse un altro mondo, se possibile ancora più affascinante e contraddittorio.

 

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