Madama Butterfly
Aggiunto il 04 Agosto, 2010
Si versarono fiumi d’inchiostro – ai tempi – per questa registrazione, soprattutto per il binomio Sinopoli-Freni che si riuniva per la seconda volta in sala di registrazione alle prese con un’opera di Puccini.
Anni prima (era nel 1974), con Karajan, Mirella Freni aveva già affrontato il personaggio della sposa bambina che non avrebbe mai portato in scena ma per il quale, all’epoca, aveva la voce più adatta che si potesse desiderare. Aveva infatti 39 anni e aveva già smesso i panni del lirico leggero per affrontare quei grandi ruoli drammatici verso cui la portava il temperamento e, forse, il desiderio del pubblico e della critica di avere un’altra grande icona sopranile con cui confrontarsi e per alimentare un nuovo dualismo – la controparte era ovviamente Renata Scotto – che però di fatto non si concretizzò mai. La direzione di Karajan, aerea, luminosa e sfaccettata si sposava in modo eccellente con le caratteristiche vocali dei protagonisti (accanto alla Mirella c’erano il suo fratellone di latte, Christa Ludwig e Robert Kerns); la registrazione Decca divenne subito quella di riferimento grazie anche al film di Ponnelle più o meno contemporaneo (però con tenore diverso: Domingo, probabilmente perché più telegenico e attore più completo).
Mirella era diventata subito nell’immaginario collettivo la Butterfly di riferimento: la sua sorridente bonomia unitamente al dominio tecnico assoluto di una parte terribile la rendeva vincente anche sull’altra grande Butterfly italiana del periodo, e cioè Renata Scotto, rispetto alla quale vantava accenti di una sincerità che commuoveva; la Scotto, altra grandissima Butterfly, era eccezionale ma non appariva così spontanea. Niente male per una che non aveva nemmeno portato il ruolo in palcoscenico!
Nel 1987 Mirella accetta la nuova sfida revisionista di Sinopoli, ma ha già oltrepassato i cinquant’anni, e questo comporterebbe già di suo notevoli difficoltà nell’affrontare la parte “scema” del ruolo, e cioè in pratica il micidiale primo atto e tutte le belinate sui pettirossi che nidificano; ma a ciò si aggiunga la visione del direttore siciliano, che è propriamente la parte che ha destato maggiormente l’interesse della critica, ma che alla revisione odierna ha un po’ perso mordente. Più giovane di una decina d’anni rispetto alla Mirella, forte non solo dei suoi studi di psichiatria, ma anche della sua formazione musicale a Darmstadt con Stockhausen e Ligeti, Sinopoli entra come una furia nella partitura di Puccini coll’evidente proposito di far piazza pulita di zii Bonzo e Yakusidé (quest’ultimo peraltro già abbondantemente demolito dalla versione parigina dell’opera), di piccine mogliettine e olezzi di verbena, di alitini flautati e di abbandoni sognanti. Il suo intento è di dimostrare al mondo che Puccini, con l’aiuto non indifferente dei suoi librettisti, ha voluto scrivere un grandissimo saggio musicale sulla psicosi da privazione.
Ci riesce?
Mah. Se rimaniamo alla parte puramente orchestrale, la risposta è un sì netto e convinto. Sin dall’avvio del breve preludio il suono della Philharmonia è aspro, secco, tagliente come quello di una di quelle orchestre che alla fine degli Anni Settanta iniziava i primi esperimenti di filologia nel repertorio Barocco. Nessun compiacimento edonistico, nessun rubato, nessuna svenevolezza sdolcinata; c’è invece una presenza aggressiva dell’orchestra, specialmente in tutti gli incisi che commentano la voce di Pinkerton, quasi a sottolineare la rapacità indifferente del personaggio. Svacca un po’ Sinopoli, invece, allorché è in scena l’adorata Mirella: il suono diventa dorato, ambrato e luminoso come se fossimo in presenza di Karajan. Le cronache dell’epoca tramandano intensa commozione degli astanti in genere e di Sinopoli in particolare di fronte alle performances solistiche di Mirella e questo, ancora oggi, appare lontano da quella visione “psichiatrica” dell’opera di cui tanto si parlò.
Il primo atto – per la Mirella – è un autentico disastro di credibilità. La ricerca costante di un miniaturismo vocale che renda il lato infantile o prepubere di una cinquantatreenne non solo sfiora più volte il ridicolo, ma spesso lo sfonda proprio alla grande. Anche il duettone del secondo atto, benché interessante soprattutto per l’avvolgente accompagnamento di Sinopoli, affonda pesantamente per il mistake soggettivo ed oggettivo dei due protagonisti.
Ma, a partire dal secondo atto, se vogliamo eccettuare i soliti incisi da scema come la storia dell’ornitologia che la vedono piuttosto a disagio, la Mirella si trova in un terreno più adeguato a lei e prende decisamente quota anche se lo fa in modo “freniano”. Alcuni momenti – come “Un bel dì vedremo”, o “Che tua madre” - sono autentici capolavori, ma suonano lontanissimi dall’universo psichiatrico che Sinopoli cerca di evocare e di cui parliamo diffusamente nell’editoriale “La Signora Farfalla e le inquietudini del Primo Novecento”, reperibile in archivio del nostro sito all’indirizzo http://www.operadisc.com/vis_tutto.php?id3=100: è piuttosto una poetica tipica della grande cantante modenese, che canta probabilmente bene come raramente le era capitato, ma che è veramente scollegata dal disegno direttoriale. Ad onore del vero talvolta si percepisce nella Freni la mancanza di peso vocale che la porta ad affondare un po’ troppo con sguaiataggini di basso profilo e che compaiono spesso anche in altri ruoli allorquando deve fare la voce grossa, ma sono piccolezze che – nello specifico – qualcuno attribuirebbe al generico milieu verista in cui l’opera è stata prodotta.
Al suo fianco, purtroppo, José Carreras mostra terribilmente la corda in un ruolo come Pinkerton di cui, in quel punto della sua carriera, non riesce a trovare la cifra (nel 1974, a Chicago con la Scotto sotto la bacchetta di Adler, era stato non meno che eccezionale). La vocalità, provata anche dalla malattia che lo aggredì proprio in quell’anno, è ormai ai minimi termini, ma non solo per la terribile leucemia cui sembrava che addirittura dovesse soccombere: esponente di quella schiatta di cantanti che, sull’esempio di Pippo Di Stefano, cantava con la canna al vento, aveva mutuato dall’augusto predecessore tutto il peggio, facendo durare davvero troppo poco la magia delle smorzature e degli attacchi in pianissimo. Qui l’unico modo di cantare è il tutto forte, che fa molto “verista” e che, conseguentemente, c’entra assai poco con l’universo ideato da Puccini e con l’ideazione interpretativa particolare di Sinopoli. C’è però da dire che, paragonato a Pavarotti dell’incisione Decca con Karajan, Carreras fa sentire una maggior pertinenza stilistica e psicologica che ci fa dimenticare l’abisso vocale che lo separa dal grande tenore modenese. Eccezionale, da questo punto di vista, non tanto l’affettuosità posticcia del duettone del primo atto, comunque massacrato da troppe note ballanti; quanto il tono smarrito e quasi terrorizzato con cui si aggira per la casa di fantasmi nel secondo atto, in cui proprio sembra colto dal timor panico nei confronti dell’ombra di Butterfly. Prova quindi ambigua: pessima vocalmente, ma notevolissima quanto ad intenzioni.
Quanto agli altri, lo Sharpless di Pons è eccellente e ci riporta almeno parzialmente i fasti di un cantante che, alla fine degli Anni Settanta, prometteva molto di più di quanto poi mantenne; la Berganza non è affatto un lusso in un ruolo che, quando affidato ad una cantante di rilievo, riesce ad essere un importante ago della bilancia drammaturgico; e Laciura all’epoca era il tenore caratterista di riferimento del Met, ed era davvero bravo. È appena sufficiente Mark Curtis nei panni di Yamadori, mentre la presenza di Kurt Rydl come zio Bonzo è uno spreco bello e buono, così come quella di Petteri Salomaa nella parte virtuale di Yakusidé