Tosca
Aggiunto il 16 Giugno, 2007
Questa sarebbe una delle migliori prestazioni di Corelli nel ruolo di Cavaradossi, eppure – a distanza di oltre 40 anni – non finisce per convincerci.
Liquidiamo in una parola l’aspetto vocale: è eccezionale. La voce fluisce in un’unica colata d’oro ed è splendida, torrenziale, perfettamente timbrata su tutte le frequenze: difficile pensare che nella Storia ci possa essere stato qualcuno superiore quanto a volume e bellezza del mezzo vocale. Il tenore marchigiano, oltre a tutto, doveva essere in forma vocale a dir poco strepitosa perché sembra essere superiore anche ai suoi standard già di per se stessi stratosferici. Insomma, un’autentica goduria per l’ascoltatore che di questo aspetto dovesse appagarsi, basandosi sul fatto che quello di Mario è un personaggio minore nella stretta economia drammaturgica dell’opera, schiacciato com’è fra due mostri come Tosca e Scarpia.
Ma le cose, come sappiamo bene, non sono proprio in questi termini.
È vero che Cavaradossi è effettivamente in minoranza rispetto agli altri due protagonisti, ma il proprio peso ce l’ha, e non può risolversi nel solo eroismo sterile e nell’abbandono amoroso. Ha due arie splendide che potrebbero risolvere il personaggio, ma è anche il motore della tragedia, essendo l’oggetto del contendere fra gli altri due. La sua drammaturgia meriterebbe qualche cosa di più.
E difatti, già qualche anno prima in Italia c’erano stati due tenori che avevano rivoluzionato l’interpretazione di questo adorabile fessacchiotto prestandogli un declamato melodico che aveva sparigliato le carte relegando una volta per tutte in soffitta i languorosi “dolci baci e languide carezze” che, con i loro sospiri, sembravano concludere in sé tutte le esigenze del personaggio e del pubblico. Questi tenori erano, ovviamente, Giuseppe Di Stefano e Mario Del Monaco che, con la loro scansione bruciante e l’emissione asciutta e scabra, pur non disgiunta – stiamo parlando soprattutto del tenore siciliano – da splendide mezzevoci e un’affettuosità intima che al personaggio si adatta meravigliosamente.
Con Corelli riprendiamo a suonare più “alto”, e questo non potrà che soddisfare i vocalisti più ortodossi, quelli che vogliono il suono perfettamente immascherato e proiettato come una fucilata, con gli acuti perfettamente sottolineati e tenuti possibilmente un’eternità; ma per essi varrà anche di più il live di Parma del 1967, in cui la corona di “Vittoria” è una delle acrobazie più muscolari e – da questo punto di vista – entusiasmanti mai prodotte da ugola umana. Però c’è anche da sottolineare che, parimenti a questo abbandono del declamato in favore di un ritorno ad un’emissione d’antan, c’è anche un ripristino di strascinamenti, portamenti ascendenti e, più generalmente, di vezzi interpretativi che riproiettano l’interpretazione indietro di una trentina d’anni. E questa è un problema molto grave che, di fatto, azzera tutto ciò che può suonare entusiasmante ad un ascolto superficiale di cotanta messe di voce.
Sentiamo per esempio il “No, ma un’ultima grazia io vi richiedo”: in bocca a Corelli è un florilegio di portamenti lagnosi ed insopportabili (anche se preludono ad un “E lucevan le stelle” di sconvolgente bellezza, compresa una smorzatura su “…disciogliea dai veli” che per il vero arriva quasi al limite della rottura della voce); in bocca a Di Stefano è di un’asciuttezza espressiva talmente piena di dignità da creare subito nell’ascoltatore l’idea di una dignità suprema del personaggio di fronte alla morte; e quanto al “E lucevan le stelle” del tenore siciliano, sappiamo benissimo come sapesse renderlo evocativo ed estasiato. A volte anche poche parole sono essenziali per la resa del personaggio!...
Leontyne Price è invece una delle interpreti di Tosca da portare sugli scudi per tutta la vita. L’emissione densa e sinuosa, di innata sensualità, fa da supporto ad un’interpretazione sicuramente di vecchio stampo nella sua volitività, ma bandisce programmaticamente ogni traccia di quell’isterismo che invece altre interpreti di area callasiana vi profondono a piene mani. Oggi probabilmente desidereremmo puntare in altre direzioni per questo ruolo, ma questa è un’interpretazione che non è invecchiata allo stesso modo di quella di Corelli. Non neghiamo di essere un po’ di parte quando parliamo di questa immensa Artista, ma come si fa a rimanere indifferenti di fronte al sesso che letteralmente evoca con la tiritera di “Non la sospiri la nostra casetta”, con quella voce sempre vagamente incatramata, eppure sempre pronta a fiondate all’acuto come quello della “lama” che è una folgore come ben poche altre?
E la furia di fronte al sospetto evocato da Scarpia? Autentica, sincera, mai posticcia come ci è capitato di percepirla in altre interpreti che giocavano a fare la Diva mentre tutt’al più potevano evocare l’idea della borgatara.
Certo, la pronuncia italiana è spesso indecorosa, tanto da farle mangiare certe parole che invece avrebbero un’economia ben precisa nello sviluppo del dramma, ma è tanto e tale l’istinto teatrale da rendere tale problema trascurabile di fronte ad una prestazione che, nel suo complesso, è affascinante.
Scarpia è interpretato da un altro mostro sacro, uno di quei cantanti che non ha bisogno di presentazioni: quel Cornell MacNeil che, un quarto di secolo dopo, sarebbe stato ancora Scarpia in una produzione videoregistrata, con la voce assai più compromessa ma il carisma ancora perfettamente integro.
Qui, invece, oltre alla forza di una presenza soggiogante, perfettamente equilibrata ed esente da isterismi di maniera, c’è anche una voce splendente, corrusca, sicurissima e a suo agio in qualunque settore del pentagramma. Il secondo atto, da ricordare anche per la perfetta intesa con la Price, è uno dei meglio cantati ed interpretati di sempre, mettendoci sostanzialmente – fra quelli in disco – Taddei e Metternich. Certo, siamo dalle parti di una visione tradizionale di Scarpia, ma siamo comunque su livelli molto alti e irraggiungibili da altri cantanti che sono passati per esserne grandi interpreti.
La direzione non si distingue per particolare estro (non era questo infatti il terreno dove si esprimeva la genialità di Adler), ma è comunque funzionale, sbrigativa ed efficiente.
I comprimari erano quelli della compagnia fissa del Met; tutti complessivamente piuttosto bravi, dall’eccellente sagrestano di Flagello, allo Spoletta nervoso di Franke sino allo Sciarrone nero e sinistro di Cehanovsky.
Registrazione godibilissima, nell’ottimo standard Myto