Nessun dorma di Jonas Kaufmann
Aggiunto il 16 Settembre, 2015
Disco che non so se definire più brutto o più inutile.
Quello di “brutto” è ovviamente un concetto soggettivo ed è ingiusto se applicato a un cantante che per certi versi è (stato) rivoluzionario come Kaufmann, ma lo uso in senso provocatorio perché, secondo me, non è accettabile che uno come lui faccia il “tenore piacione” buono per tutti gli usi.
Perché non lo è.
E perché in un contesto del genere è uno spreco che, al limite, va bene solo per se stesso e per gli aficionados di più stretta osservanza.
“Inutile” perché – siamo onesti – in questo repertorio si è sentito talmente tanto anche di interpreti prestigiosissimi che se vuoi spiccare devi proporti in opere desuete; oppure in quelle consuete, ma rivoluzionandone e, se occorre, destrutturandone completamente l’approccio.
Non basta più, invece, cantare bene; e anche su questo “v’è poi da ridire” (come direbbe De Andrè).
Ma andiamo con ordine.
Kaufmann, sino a un po’ di tempo fa interprete rivoluzionario anche di questo repertorio (si pensi al suo Cavaradossi di Zurigo 2009), ormai ha virato in altra direzione, vuoi per età, vuoi per limiti vocali soprattutto in acuto, vuoi per convinzione.
Questo è un disco telefonatissimo in apporto emozionale, contenuti e, parimenti, prevedibili problemi, già insiti in un programma talora talmente bislacco da essere imbarazzante.
Cosa ci fa lo stornello di Rinuccio in questo disco? È un riempitivo? Spero di sì, perché se è una scelta programmatica mi viene da pensare. L’attuale Kaufmann, incatramato e impiumato, alle prese con una pronuncia italiana che non è mai stata così problematica, lotta con una tessitura altissima che ha messo in difficoltà gente più attrezzata di lui e fa la figura dell’elefante in un negozio di cristalleria. Non stona, per carità (e vorrei anche vedere, in studio); semplicemente non ha il dominio del brano.
D’altra parte, per credibilità dei ruoli affrontati questo è comunque, a prescindere, un disco fuori tempo massimo; e proprio a cominciare da Des Grieux, che si vorrebbe giovane ed emozionato, mentre qui è un orco alle prese con le prove generali di qualche Otello prossimo venturo. Terribile il “Donna non vidi mai”, che non ha nulla del tono sognante richiesto. Un po’ meglio il duetto, ma viene divorato dall’aggressività della Opolais, che pure non canta affatto meglio di lui ma ha comunque evidente voglia di farsi notare. Meglio ancora il successivo “Ah Manon mi tradisce”, ma secondo me non è giustificato l’inserimento di questo brano in un’antologia. Meglio in assoluto, in questo scorcio sul primo capolavoro di Puccini, il “No, no, pazzo son”, in cui il tono è giusto: asciutto pur essendo accorato, virile, per niente larmoyant (insomma, niente a che vedere con la tiepida zuppetta di Gigli), ma niente che non si sia già sentito, per esempio dal tanto vituperato Domingo, uno che questo ruolo lo conosceva – come si suol dire – anche capovolto.
Con i due brani de Le Villi e di Edgar ci avviciniamo al meglio di questo disco. I brani sono molto famosi, ma non così tanto come gli altri. Kaufmann ne dà una lettura assolutamente perfetta: visionaria, violenta e molto romantica (nel senso letterario e tenebroso del termine), soprattutto dell’assolo di Roberto.
Il brano forse più bello di tutta questa raccolta è però, a mio personalissimo gusto, “Oh soave fanciulla” in cui la voce di Jonas palpita proprio all’unisono con quella della Opolais, che non è né mai potrà essere la Mimì di chi è cresciuto a pane e Mirella, ma è molto meglio di come risuona in Manon. Entrambi finiscono il loro “Amor, amor!” con una splendida smorzatura che forse non funzionerebbe così bene in teatro ove non si sentirebbe nemmeno se microfonata, ma che rende ragione dell’esistenza e dell’importanza del disco. Peccato che Jonas non abbia uniformato tutto il disco a questo eccelso standard…
Si torna infatti a “Recondita armonia” che, pur ben cantato, rende ragione del tempo passato e della necessità di resettarsi a un livello più basso. Mancano clamorosamente i colori; tutto viene cantato sul forte, senza sfumature.
Decisamente insulsi i brani della Butterfly – di cui non sarà mai interprete eccelso: gli manca il tono da crooner – e della Rondine. Meglio la Fanciulla, titolo che ha portato in teatro facendolo benissimo.
Della scelta strampalata di mettere in questa lista Rinuccio e la sua stornellata a Firenze abbiamo già detto. Ci vorrebbe un tono da Odoardo Spadaro, ma questo non è il caso dell’invecchiato e tedeschissimo Kaufmann.
Infine i brani della Turandot: non sono male. Di più: se paragonati alle performances di alcuni cantanti che hanno recentemente proposto il ruolo in teatro, sembrano meravigliosi. Ma personalmente non mi coinvolgono più che tanto: sono bellurie epidermiche, e i trucchi di Jonas ormai ci sono ben noti.
Qualche parola sui partners di questa avventura discografica.
La Opolais ha splendide intenzioni e tono seducente (il modo in cui pronuncia la parola “Curioso!...” al termine del duetto della Bohème è talmente eccitante da annichilire qualunque Rodolfo), ma la voce non può essere quella di una pucciniana, quanto meno non del tipo cui siamo abituati: troppo aspra, gutturale e violenta. Non credo quindi possa essere proposta in un contesto del genere in cui si configura come un elemento di rottura. Si consideri il duetto della Manon Lescaut: la sua è una seduzione tutta centrata sulla violenza. Dal vivo di uno spettacolo come quelli cui ha partecipato sappiamo che “spacca”; ma qui in disco fa una figura proprio misera.
Non commento le due voci basse: la loro partecipazione è troppo limitata per esprimere un parere che temo sarebbe piuttosto severo.
Splendida invece la direzione di Pappano, uno che sta in questo repertorio come un topo nel formaggio. Dimostra di essere un fuoriclasse anche per il modo in cui tratta anche i recitativi premessi alle arie. E se decidesse di lasciar perdere per una volta Bohème, Butterfly & co, come scherzosamente definiva le sue opere Puccini, e si dedicasse invece a Le Villi o a Edgar, avremmo finalmente l’esegeta ideale per nobilitarle.
Un’ultima considerazione su questo tipo di crestomazia: come dicevo all’inizio è roba inutile, davvero.
Le antologie hanno un senso, ormai, in un repertorio sconosciuto (un po’ come fa la Bartoli); oppure se vuoi proporre interessanti variazioni sul tema, come le destrutturazioni di cui parlavo sopra. Altrimenti tanto vale farci godere una rappresentazione nella sua integrità.
Su Puccini è stata detta la qualogni; se non si vuole che arrivi la Kermes di turno a spaccare le note in quattro all’insegna del famolo strano, sarà meglio ragionare su quello che vogliamo.
Vogliamo il rassicurante Puccini di Karajan? Be’, allora sarà il caso di trovare qualche Pavarotti o Freni, perché qualunque alternativa – ivi compreso questo Kaufmann – sarà deludente. Per cantare quel tipo di Puccini, mettere insieme le note non basta.
Se Jonas Kaufmann vuole fare un disco di arie pucciniane veramente degno del suo rango – e questo, per me, non lo è affatto – sarà meglio recuperare lo spirito che animava il suo Cavaradossi di Zurigo 2006, quello che smorzava divinamente l’attacco di “E te beltade ignota”, come non ha mai fatto nessun altro di quelli che conosciamo.
Ridateci quel tenore stratosferico; di questo, io personalmente non so cosa farne.
Pietro Bagnoli