Martedì, 26 Novembre 2024

Manon Lescaut

Aggiunto il 11 Luglio, 2006


• Manon Renata SCOTTO
• Lescaut Pablo ELVIRA
• Des Grieux Placido DOMINGO
• Geronte Renato CAPECCHI
• Edmondo Philip CREECH
• L’oste Mario BERTOLINO
• Un maestro di ballo Andrea VELIS
• Un musico Isola JONES
• Un sergente degli arcieri Julien ROBBINS
• Un lampionaio John CARPENTER
• Un comandante di marina Russell CHRISTOPHER


Chor and Orchester of the Metropolitan Opera House, NY
JAMES LEVINE

Luogo e data di registrazione: New York, 1980
Ed. discografica: MYTO, 2 cd a medio prezzo

Note: buona masterizzazione, suono complessivamente accettabile

Pregi: ottima Scotto

Difetti: comprimari di basso cabotaggio

Valutazione complessiva: images/giudizi/ottimo.png

Ecco una classica produzione americana Anni Ottanta, agli ordini dello scattante Jim Levine, uno che ama evidentemente molto questa partitura così complessa ed arruffata.
Complessa perché è un coacervo di intenzioni poetiche – peraltro piuttosto pasticciate – che prevedono cantanti nel fiume della gioventù, ma già esperti e smaliziati da un punto di vista vocale. Manon è una delle ninfette di Puccini, quelle ragazzine appena quindicenni ma già profondamente conturbanti, in grado di far impazzire tenori ed ascoltatori non meno evidentemente dell’Autore. Il problema – se vogliamo, condivisibile anche con Butterfly – è ce Manon non è parte adatta ad una ragazzina, né da un punto di vista vocale né psicologico.
Contrariamente all’eroina charmante della splendida opera di Massenet, che non diventa donna nemmeno davanti alla morte, questa vive e muore in un soffio bruciante di “passione disperata”, come la definì Puccini stesso. Da questo punto di vista, “In quelle trine morbide” è già un’aria profondamente adulta, ma lo stesso duetto del secondo atto, quello che secondo qualcuno – vorremmo dire Mosco Carner, ma non ne siamo affatto sicuri – “tristaneggia senza rossore”, vede la ragazzina (che tale, anagraficamente, ancora sarebbe) ormai trasformata in un’autentica pantera, mentre la protagonista di Massenet giocava con la seduzione con il sorriso e la dolcezza estenuata.
È chiaro che trovare la quadratura del cerchio in un ruolo così complesso è un problema non da poco. Siamo anzi convinti che sia molto più semplice – paradossalmente – trovare una Manon massenetiana che non una pucciniana, nonostante la scena del Cours de la Reine che, intuitivamente, richiede doti virtuosistiche tutto sommato non necessarie all’eroina riveduta e corretta dal Maestro “de noantri”. E questo ci porta dritti al cuore del problema.
In questa recita ci godiamo Renata Scotto, artista sensibile, intelligente, aspra e scabra come una roccia basaltica, dotata di volontà di ferro e, ahinoi, di una voce fragile come il cristallo. Voce – si badi – che all’epoca di questo live americano era già passata attraverso Lucia, Gilda, Abigaille, Anna Bolena ed Elena dei Vespri; ed erano anche gli anni di Lady Macbeth. È chiaro che è l’ultima cantante a cui si può chiedere di far risuonare le corde della gioventù, che effettivamente il soprano savonese si guarda bene dal solleticare.
La sua è una seduzione già adulta, ricca di uno charme che rimanda maggiormente a quella Marescialla che avrebbe affrontato – con risultati eccellenti – molti anni dopo. Quanto questo tipo di glamour c’entri con Manon, non sapremmo dire. Ma, a conti fatti, ha ragione lei. Perché questa, per vie che sono solo sue e di nessun altra cantante, è una Manon straordinaria, ricca di una femminilità esausta e sfiorita (ed ecco perché con Manon non ci azzecca), in cui la sensualità acerba è sostituita da un gioco deduttivo maturo, ricco di un senso del tempo che passa e non ritorna più. Un tale tipo di impostazione può reggere poco e, a conti fatti, potrebbe stufare in un contesto differente. Questa Manon trova la sua dimensione definitiva non nella grande scena della seduzione del secondo atto, che la vede decisamente poco affascinante, vuoi per l’aridità timbrica, vuoi per lo scarso gioco coloristico, vuoi per la mancanza di credibilità del personaggio creato. Nossignori: questa Manon trova la sua consacrazione nella grande scena del Quarto Atto (cui, peraltro, arriva col fiatone) in cui trova accenti di disperazione così rabbiosa da dare veramente un fremito all’ascoltatore che rimane avvinto a questo personaggio.
È quindi una protagonista che crea un personaggio forse non completamente risolto, abbandonando così repentinamente l’idea di creare un sia pur minimo alone deduttivo; nondimeno, un personaggio affascinante proprio per la sua incompletezza, che forse realizza così più compiutamente di tante altre cantanti anche più adeguate l’intenzione del giovane Puccini alle prese col proprio primo personaggio importante.
A fronte di una protagonista così sfaccettata, ci sta il Placido Domingo di quegli anni: vale a dire, temperamento al fulmicotone e voce sicuramente più disastrata tecnicamente di quanto – paradossalmente – non abbia fatto sentire vent’anni dopo, quando s’è attrezzato per la svolta wagneriana della sua vita. Detto questo, Domingo rimane con Pertile, Merli e apres eux l’énfer uno dei pochi, pochissimi Des Grieux da sollevare sugli scudi e ricordare per tutta la vita. Il personaggio, si sa, non è particolarmente sfaccettato; ma è talmente tanta e tale la violenza espressiva che Domingo riesce ad infondergli, da riuscire a rendere credibile ogni patimento e, soprattutto, la trasformazione da studente spensierato ad amante disperato. E se qualcuno pensa che a Domingo non riesca di far sentire la giovinezza del primo atto, be’, si può ricredere ascoltanto il tono spensierato ed affettuoso che riesce ad infondere anche nell’arietta “Tra voi belle”. Certo, il personaggio non è ancora così rifinito come sarà quattro anni dopo nell’incisione in studio con Sino poli; ma siamo già – per così dire – vicini alla vetta.
Il resto, un disastro o giù di lì.
Da salvare Pablo Elvira che, per qualche anno, ha svolto un’onesta carriera da baritono di casa a NY. Nella voce e nel piglio c’è un po’ di Frank Guarrera, cantante storico del Met che fu, ma lo orecchia decisamente alla lontana; purtuttavia, la voce non era niente male.
L’Edmondo di Creech è vergognoso e il musico di Isola Jones è greve e senza un minimo di sale.
Capecchi, il glorioso Capecchi, è senescente; e il resto dei comprimari americaneggia alla grande.
Levine – come si è detto – dirige splendidamente dando un’impronta tragicamente grandiosa alla vicenda di una donnina leggera; se solo l’orchestra lo seguisse dando un suono di pari spessore…

Categoria: Dischi

 

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